“Che sta succedendo? Perché tanta violenza tra i giovani?”, sono domande che il mondo adulto si pone sempre con maggiore frequenza in seguito a recenti fatti di cronaca, vedi su tutti lo stupro di Caivano perpetrato per mesi da più adolescenti ai danni di due ragazzine indifese di 10 e 12 anni, che hanno scosso e inquietato l’intera l’opinione pubblica. Si può rispondere a questi interrogativi? Difficile dirlo, ma un tentativo in tal senso può essere avanzato non dimenticando mai l’evenienza che un argomento così complesso può essere affrontato da diverse prospettive – come quella sociologica o quella psicologica – che, in ogni caso, non riescono mai ad esaurire l’argomento, perché è come se ognuna di esse cogliesse un qualche frammento di un puzzle che nel complesso è difficile da ricostruire in toto.
Da una prospettiva sociologica Zygmunt Bauman, rileva come, chi in misura maggiore chi in misura minore, siamo mutati da un punto di vista antropologico: ci siamo trasformati da cittadini in consumatori. Tutto deve essere consumato, sia che si tratti di un bene materiale, sia che si tratti di una relazione sentimentale, sia che ci si trovi davanti la natura, come se tutto ci appartenesse. Come se fossimo in diritto di essere proprietari di qualunque cosa, il che comporta che nel momento in cui tale aspettativa viene disattesa può esplodere il momento di furia violenta.
Da una prospettiva sempre sociologica ma con una maggiore inclinazione verso la psicologia, altri autori quali Miguel Benasayag e Gerard Schmit, riprendono una felice espressione del filosofo Spinoza e definiscono gli anni in cui viviamo “il periodo delle passioni tristi”, poiché tristezza-rabbia-frustrazione-gelosia paiono tenere sotto scacco l’animo di molti ragazzi/e. Probabilmente perché il futuro economico lavorativo pare fosco e precario; così, in un circolo vizioso senza fine, tali passioni tristi rinforzano e vengono rafforzate da un pessimismo che accompagna le giovani generazioni, fino a che tale opprimente stato d’animo non si manifesta, fortunatamente non sempre, attraverso momenti di violenza.
Come si vede, ognuna di queste osservazioni, pare cogliere qualcosa del fenomeno violenza giovanile, ma poi è difficile, e saggio si potrebbe aggiungere, ritenere che una singola teoria possa spiegare tutto: le osservazioni di Bauman per esempio sembrano ben cogliere il come mai tanti uomini ritengano di essere i proprietari di una donna, paiono invece meno di aiuto nel capire quelle forme di violenza che paiono più orientate solo verso un voler distruggere anziché verso un desiderare di possedere qualcosa o qualcuno; le riflessioni di Benasayag e Schmit colgono il come talvolta il pessimismo si trasformi in distruttività, ma non spiegano le tanti situazioni in cui il pessimismo rimane solo tale o addirittura le circostanze in cui finisce con il rendere una persona più sensibile. Questo per dire che la realtà è così complessa e sfumata che non può mai essere spiegata e confinata completamente dentro delle pur buonissime cornici teoriche; teorie che, d’altra parte, rivelano tutta la loro utilità se usate come bussole che aiutano ad orientarsi dentro un fenomeno oggetto di studio piuttosto che come di chiavi di lettura che possono comprenderlo a 360° gradi. Naturalmente tali rilievi critici valgono anche per le teorie psicologiche, sulle quali vorremmo adesso conservare il focus principale di questo articolo.
Da quest’ultima angolazione, diversi autori constatano come i ragazzi di oggi soffrano di “analfabetismo emotivo”, ovvero di una marcata incapacità nel riuscire a riflettere sulle proprie e altrui emozioni. Il filosofo Umberto Galimberti, per esempio, nel suo saggio “L’Ospite Inquietante” rievoca numerosi episodi di violenza giovanile accomunati dal fatto che i loro autori fossero considerati “normali”, fino al momento dell’azione violenta, da tutti coloro che li conoscevano. L’emozione di rabbia madre di tanta aggressività – argomenta giustamente Galimberti – non si può pensare che sia nata in quel momento, doveva per forza di cose essere già ben presente prima che esplodesse in maniera così efferata, tuttavia in questi casi é come se non fosse stata né pensata né elaborata e proprio in conseguenza di ciò si è manifestata attraverso un comportamento inatteso e soprattutto eccessivamente aggressivo.
Difficile non essere d’accordo nell’attribuire un certo peso all’analfabetismo emotivo per spiegare il perché di tanta violenza, tuttavia nel parlarne ci si imbatte anche in un limite di questo validissimo costrutto teorico: è di aiuto nello spiegarci qualcosa di impensabile, poiché riesce a descrivere magistralmente quanto verosimilmente accade a molti giovani, ma non dice nulla sul da dove provenga l’analfabetismo emotivo. In altre parole, perché tanti ragazzi oggigiorno soffrono di analfabetismo emotivo? L’analfabetismo emotivo non esiste da oggi, per esempio dal 1976 in poi si è iniziato a parlare con sempre maggiore frequenza di persone con alessitimia, ovvero di persone incapaci di dare un nome alle proprie emozioni perché in difficoltà nel coglierle; tuttavia è innegabile il fatto che tale fenomeno oggi abbia assunto proporzioni enormi rispetto ai decenni precedenti: oggi pare espandersi a macchia d’olio, in passato non era affatto così. Cosa può essere cambiato? Considerato che non è plausibile ipotizzare che l’uomo si sia modificato negli ultimi 40 anni, deve necessariamente esserci qualche altra spiegazione. Questa possibile spiegazione la troviamo in relazione alla quantità di stimoli a cui le giovani generazioni sono sottoposte. Si pensi è stato calcolato che un giovane americano vissuto negli anni 80 del secolo scorso era sottoposto ad 1/5 degli stimoli visivi-informativi-pubblicitari che ricadono invece su un giovane americano che vive in questo periodo storico. E il punto è che ad un aumento così massiccio di stimoli non corrisponde, naturalmente, una diversa capacità elaborativa della nostra psiche. In altre parole, il mondo ha aumentato enormemente la sua velocità, ma l’uomo non può sostenere quella stessa velocità. Per rendere il discorso più pratico e immediato, sia permesso un piccolo esempio. Pensiamo ad un bambino di oggi davanti a dei cartoni animati: può vedere quante puntate vuole di un certo titolo, e può vederne in genere quanti ne vuole all’ora che vuole. In un certo senso si trova dentro un fiume ininterrotto di cartoni animati. Un bambino vissuto 35-40 anni fa ne vedeva invece uno ed avrebbe visto la puntata successiva il giorno dopo. A prima vista sembrerebbe invidiabile la condizione del bambino odierno, in realtà non è così poiché il bambino di qualche decennio godeva della possibilità di avere un rapporto diverso con il tempo. Aveva il tempo di fantasticare ed elaborare: poteva parlarne con gli amici, rimanere anche solo a riflettere sulla storia e sui personaggi, aveva il tempo per identificarsi con un protagonista, di provare antipatia e rabbia per un altro, e via dicendo. Ma soprattutto aveva il tempo per poter capire tutto ciò, cioè aveva il tempo per capire le emozioni e gli stati d’animo propri e dei personaggi, mentre questo tempo, scadenzato da ampi spazi vuoti, oggi pare non esserci. Tutto è veloce e compresso per il bambino di oggi, mentre una certa educazione emotiva, l’arte di imparare a conoscersi e a conoscere, richiede un tempo lento. Il bambino di oggi si trova così a vivere quel cortocircuito, di cui parlavamo poc’anzi, dato da un’enorme quantità di stimoli a cui non sa sottrarsi e l’impossibilità di elaborarli compiutamente che pare così alla base di quel dilagante analfabetismo emotivo tanto presente nelle giovani generazioni.
Immaginiamo ora un adolescente cresciuto con il cortocircuito appena descritto e che attualmente continua a guardare per ore e ore di seguito persone che, in un modo o nell’altro, hanno ottenuto successo e denaro. Tutti sono diventati qualcuno, tranne lui. Questo vissuto, pesante e angosciante, giace, non detto, sul fondo della sua psiche: non lo esprime ad alta voce né ad un adulto, né ad un coetaneo, però c’è. E questa presenza silenziosa, dato che il comportamento sui social è quotidiano, si alimenta ogni giorno. Cresce, fino a quando non viene fuori in qualche modo: spesso è un odio e una rabbia per non essere nessuno e/o per qualche parte di sé che non piace, ma che si scaglia verso l’esterno. Forse, e il forse è d’obbligo, è successo questo a quei ragazzi che si sono avventati su una innocentissima capretta. Forse hanno visto nell’animaletto quella fragilità che in loro non ha trovato parole per esprimersi e/o dei filtri per essere pensata, e così hanno finito con lo scagliarsi con ferocia sull’emblema di quella fragilità, con i risultati tragici che tutti conosciamo.
Come uscirne? Cosa si può fare per arginare tale deriva? Certamente sarebbe utopistico poter immaginare di tornare indietro nel tempo, né sarebbe auspicabile poiché i ragazzi di oggi sono nati in quest’epoca e, come tutte le generazioni precedenti, sono giustamente affezionati al loro periodo storico. Dobbiamo riuscire ad aiutarli oggi, senza fantasticare su impossibili e, ripetiamo, ingiusti, ritorni al passato. Possiamo provare a farlo trovando, ricavando, degli spazi lenti, in una società comunque veloce, che possano permettere di fermarsi e di riflettere insieme. In famiglia e a scuola in primis, le due principali istituzioni educative del nostro paese.
Vedere un film insieme e parlarne; andare in montagna o in un luogo silenzioso dove il cellulare non è raggiungibile; dedicarsi, senza l’assillo del risultato estetico, a qualcosa di creativo; ascoltare musica di qualità; stare a tavola senza tv e via dicendo; sono tutte possibili situazioni che una famiglia di oggi non dovrebbe mai trascurare. Tutte queste attività sono infatti oggi ancor più importanti che in passato, perché oggi abbiamo la necessità di imparare a fermarci, mentre in precedenza, dove tutto era scandito da un tempo per così dire più lento, tale necessità non c’era.
Per quanto riguarda la scuola potrebbe e dovrebbe invece lasciar entrare maggiormente la psicologia al suo interno: spazi di gruppo, giochi di ruolo, laboratori per esprimere emozioni, sportelli di ascolto, sono tutte attività che da occasionali e sporadiche, come al momento sembrerebbero essere nella maggior parte degli istituti, dovrebbero divenire parte integrante del percorso scolastico. Si potrebbe obiettare che a scuola si va per imparare nozioni e competenze, non per un’educazione emotiva. Tale possibile obiezione lascia tuttavia perplessi, poiché un tale modo di intendere la scuola pare essere riduttivo e ancorato ad un passato dove era sentita l’esigenza di un’alfabetizzazione di massa, mentre attualmente la scuola potrebbe essere tranquillamente immaginata, per essere maggiormente al passo con i tempi, come un luogo che promuove la crescita dell’essere umano nel senso più generale del termine. Diceva il grandissimo e compianto Piero Angela: “Cosa ce ne facciamo dei ragazzi che prendono 10, 9, 8 a scuola se non sono in grado di intervenire quando viene fatto del male ad un compagno, quando hanno prestazioni eccezionali, ma non hanno strumenti per aiutare un loro amico e riconoscere un bisogno. Si punta troppo sulle prestazioni eccezionali e troppo poco sui sentimenti, troppo egoismo e impoverimento emotivo.” Con l’acume dello scienziato colse esattamente la posta in palio, ed è veramente difficile non essere d’accordo con lui.
Muoversi in tal senso significherebbe prevenire il possibile disagio dei giovani, poiché la scuola è l’unico luogo dove gli adulti sono regolarmente a contatto con i giovani e nel quale i giovani stessi sono “costretti” ad avere un contatto in presenza con altri coetanei: questo suo essere un naturale luogo d’incontro implica che sarebbe il luogo d’elezione per essere una palestra emotiva nella quale crescere insieme agli altri. Implica, se ci si impara a fermare, che sarebbe il luogo dove fare sentitamente esperienza del fatto che gli altri, in fondo, non sono poi così estranei: paure simili, sogni non così diversi, e bisogni che vorrebbero vedere realizzati. E se così fosse la scuola faciliterebbe la crescita umana dei ragazzi/e. Crescita umana che, se posta in relazione agli inquietanti fatti di cronaca che ci circondano, darebbe sia una significativa mano alle famiglie dei giovani, sia contribuirebbe non poco al benessere generale della società.