La parola umiltà deriva dal latino “humilis”, termine che indica non solo colui che è umile ma che rimanda anche a qualcosa di proveniente dal basso, dalla terra, dalla fertilità della terra. Questa etimologia induce ad ipotizzare che l’umiltà possa quindi essere un atteggiamento da coltivare in quanto potenzialmente molto fertile. Tale possibilità interpretativa del termine pare trovare una conferma nella storia del pensiero, non solo occidentale, in cui l’umiltà è considerata una virtù decisamente positiva. Ciò è evidente nell’Antica Grecia o nel Cristianesimo, per rimanere in Occidente, o nel pensiero taoista spostandoci verso Oriente: Socrate, per esempio, coltivava la sapienza riconoscendo con umiltà il suo non sapere per poi trasformarlo nel suo inesauribile metodo dialettico fonte di nuovo sapere; Gesù si autodefinisce, nel vangelo di Matteo, “umile di cuore”; Sant’Agostino, uno dei Padri della Chiesa, non solo dirà che “l’umiltà batte la superbia”, ma la collegherà direttamente al conoscere se stessi; mentre nel taoismo l’umiltà compare come una prerogativa dell’uomo saggio.
In secoli più vicini a noi questo intimo collegamento tra umiltà e conoscenza verrà ribadito da grandi pensatori e studiosi, i quali tenderanno a farlo sottolineando l’importanza del saper avere in maniera umile dei dubbi perché sono i dubbi, con le domande collegate che ne conseguono, ad aprire nuovi spazi di conoscenza. In Cartesio, in Kant, in tempi più recenti in Popper, il dubbio viene elevato a metodo di ricerca per scardinare vecchie conoscenze. Non a caso per Karl Popper è una teoria non è vera, bensì falsificabile, cioè veritiera fino al momento in cui non viene sopravanzata da nuove ipotesi e teorie capaci di spiegare meglio un fenomeno.
Tuttavia attualmente l’umiltà non pare godere di chissà quale fama. Se riflettiamo sul modo in cui oggigiorno viene impiegato l’aggettivo “umile”, come quando si dice “è una persona umile” oppure se ne rimarcano le umili origini, notiamo come questa condizione di umiltà sia connotata da un giudizio che emana un sapore di inferiorità. Così alcuni lavori diventano “umili”, quasi poco dignitosi, e coloro che fanno lavori umili diventano, per esempio nella letteratura di Giovanni Verga, i Vinti [1], o in un capolavoro cinematografico di Ettore Scola del 1976, “Brutti, Sporchi e Cattivi”, gli emarginati e i degradati che paiono ormai privati anche di una certa moralità. In altre parole, nel momento in cui l’umiltà da virtù necessaria al sapere si tramuta in una condizione economica si spoglia delle sue connotazioni positive per tramutarsi in qualcosa che diviene anche fonte di vergogna. Per esempio, molte volte capita di ascoltare un adolescente lamentarsi del fatto che i suoi vestiti possano essere umili, cioè non in grado di conferirgli un certo status, o del fatto che la sua immagine pubblica sia per così dire troppo umile, cioè non in grado di catturare consensi e likes. Questa ultima affermazione, sia permesso un breve excursus, non vuole essere una critica agli adolescenti odierni, perché se li ascoltiamo con attenzione, non soltanto possiamo capire quanto essi soffrano terribilmente per tutto ciò, ma possiamo anche intravedere come dietro facciate comportamentali discutibili si celi una richiesta di aiuto [2] agli adulti proprio rispetto al come affrontare una società che pare pervasa da un’atmosfera culturale in cui sono prevalentemente l’economia e l’immagine a determinare il valore di una persona. Ma il mondo adulto, purtroppo, il più delle volte pare in difficoltà nell’affrontare tematiche di tale portata perché anch’esso non dispone di risposte forti.
Attualmente, quindi, pare decisamente necessario trovare dei modi per coltivare il legame tra umiltà e conoscenza. La psicoanalisi può costituire un possibile risposta a questa necessità di ritrovare un legame tra umiltà e conoscenza, o se si preferisce tra umiltà e crescita. In ambito terapeutico l’assenza di umiltà, o meglio l’importanza di tale assenza, la si nota spesso. In alcune condizioni psicologiche, per esempio nel narcisismo o in alcune convinzioni deliranti, è in qualche modo evidente che la persona soffra per il fatto di avere troppe certezze, per l’avere una visione granitica e rigida della realtà esterna e della propria realtà psichica. Paradossalmente sono le troppe sicurezze a generare delle difficoltà. Dinanzi ad un delirio, come ben sa chi ha esperienza clinica, si cerca di far nascere qualche momento di perplessità nella narrazione del paziente; oppure davanti ad una struttura narcisistica delle personalità, che spesso ha un fine difensivo, si cerca di aiutare il paziente ad aprirsi a qualcosa di nuovo, a non chiudersi in tutto ciò che gli è già familiare. E’ la possibilità di aprirsi a qualcosa di nuovo passa necessariamente per la nascita del dubbio che qualcosa di quello che già si ha non vada per il verso giusto.
Anche in situazioni molto più sottile e sfumate, che si incontrano spessissimo nella pratica clinica, pare importante l’arte del coltivare il dubbio. Per esempio, in molte occasioni un paziente emette giudizi duri sul/sulla partner, vedendo poco quale potrebbe essere il suo contributo e il suo ruolo in quella determinata dinamica di coppia. In sostanza, vede troppo l’altro e poco sé. In termini junghiani, potremmo dire che ogni qual volta si esprime un giudizio con troppa disinvoltura c’è il rischio che si proietti qualche aspetto di Ombra, cioè che si veda solo nell’altro qualche limite o difetto che può essere anche in sé stessi, o quantomeno anche in sé stessi. Per esempio, tra coniugi capita di frequente che alcuni difetti vengano percepiti solo nella famiglia d’origine dell’altro e meno nella propria. Imparare ad essere più cauti ed umili con i giudizi potrebbe essere un modo per bilanciare tutto ciò. Da questa angolazione la cautela e la prudenza potrebbero essere considerate conseguenze virtuose dell’umiltà.
Ma cosa può facilitare il recupero di una salutare umiltà? Attingere alla tradizione psicoanalitica può aiutarci a trovare una possibile strada in proposito. Erich Fromm ha osservato che per poter coltivare un atteggiamento di umiltà è necessario in primo luogo saper convivere con l’incertezza. E ciò non è semplicissimo, perché le certezze, fin troppo granitiche come notavamo poc’anzi, danno un senso di sicurezza. Ne consegue che per essere umili è necessario rinunciare a qualche certezza consolidata, e ciò qualche difficoltà la crea. Se però riusciamo a considerare talune nostre certezze non come un qualcosa di oggettivo, bensì come legate ad un nostro modo di vedere e percepire alcuni aspetti della nostra vita necessario a difenderci da qualche paura, tutta la prospettiva cambia. Le certezze diventano così delle false certezze, e l’umile incertezza un qualcosa che apre nuove possibilità esistenziali. Nel narcisismo è fonte di sicurezza ritenere sé stessi buoni e belli e gli altri brutti e cattivi, mentre lo scoprire che buono e cattivo sono molto più mischiati è motivo di disorientamento. Tuttavia un qualcosa di positivo per la persona con struttura narcisistica della personalità può sgorgare non dal solito binario dove il mondo è diviso in “o questo o quello”, ma da un binario dove il tutto si presenta con una sorta di “e questo e quello”, anche se questa strada è più incerta.
Reggere l’incertezza costituisce quindi la base dell’umiltà perché è proprio l’incertezza che ci restituisce una immagine di noi stessi diversa: non siamo necessariamente dei giganti, non sappiamo sempre tutto, non siamo sempre senza macchia e senza paura, non sappiamo sempre in anticipo cosa sia Bene e cosa Male, non abbiamo una verità assoluta su tutto. L’incertezza stessa ci rende umili perché ci aiuta a cogliere un’immagine più umana di noi stessi. Per questo l’incertezza, come scrive Eckhart Tolle, può divenire fonte di gioia perché ci libera di alcune corazze che ci siamo cuciti addosso e ci permette di considerare la vita come un fiume che fluisce di continuo a cui noi, con umiltà, cerchiamo di partecipare e attingere.
Nel momento in cui l’incertezza ci rende più umani e umili, siamo anche pronti per ricevere perché non siamo più nella condizione di coloro che hanno già tutto. Per questo l’umiltà apre al nuovo. Una leggenda rabbinica racconta che un giorno uno studente andò da un rabbino e gli chiese perché Dio in passato compariva a degli uomini, mentre oggi non più. Il rabbino rispose: “Perché oggi nessuno sa chinarsi tanto”. Questo racconto insegna che per ricevere bisogna chinarsi, abbassarsi, scendere, piegarsi. Ciò pare vero anche a livello psicologico. E l’essere umili ci aiuta in questo processo legato ad un andare verso il basso per ricevere. In ambito terapeutico, ciò lo osserviamo per esempio nel lavoro con i sogni. Per usare un’espressione junghiana, il sogno ha un rapporto di compensazione con la coscienza che in qualche modo “corregge” la prospettiva cosciente per aiutarla a divenire più “equilibrata”. Si ha un’idea ben precisa di una persona o di una situazione, e il sogno ne propone un’altra, aggiunge particolari, aspetti che non erano stati presi in considerazione e talvolta contraddice anche in maniera netta il sognatore, non solo per ampliarne la consapevolezza, ma anche per aiutarlo a non soffrire di hybrys, ovvero di quell’eccessiva e orgogliosa elevazione di sé in cui tutti, inevitabilmente, rischiamo di cadere.
Ma da dove viene la conoscenza del sogno? Da noi, è un qualcosa che origina dal nostro sistema nervoso, ma non è propriamente un nostro sapere. E’ un qualcosa che ci arriva, che ci viene quasi donato si potrebbe dire da un’area della psiche che non è governata da noi coscientemente. Il sogno mostra chiaramente che non siamo, per usare un’espressione freudiana, del tutto i padroni in casa nostra, che in noi esiste un’altra fonte del sapere che può saperne quanto o più di noi sulla nostra realtà psichica. Se riusciamo umilmente ad accettare ciò, perché non è semplice digerire che non si è gli unici con in diritto di parola in casa propria, vuol dire però che siamo anche pronti per ricevere in primis dall’altro dentro di noi. E nel momento in cui siamo recettivi e aperti verso noi stessi, siamo anche pronti per essere aperti a cogliere la possibilità di ricevere dall’altro. E questa, forse, è una delle grandi lezioni della psicologia del profondo che non finiamo mai di imparare.
[1] I Vinti, per essere più precisi, sono per Verga coloro che non decidono di partecipare alla “fiumana del progresso” e al gioco del volersi arricchire a tutti i costi, ma a causa di questa diversità quasi antropologica soffrono di alienazione. Pare quindi, nel ciclo dei romanzi verghiani sui Vinti, che gli umili siano privi di speranza. Anche se poi, aggiunge lo stessa Verga, anche i Vincitori un giorno diventeranno dei Vinti.
[2] A tal proposito basti pensare alle adesioni e alla partecipazione che riscuotono da parte degli studenti quei programmi scolastici extra-curriculari, quali il teatro per esempio, che richiedono un impegno emotivo da parte degli adolescenti stessi. Tale successo è in parte spiegabile con l’evenienza che l’impegno emotivo permette di andare oltre i ruoli “sociali” che gli studenti si assegnano vicendevolmente, e ciò dimostra come gli studenti abbiano fame di relazioni autentiche che vadano ben oltre l’immagine sociale che pare determinare numerosi loro comportamenti.