La parola stress fu coniata nell’immediato dopo guerra dal fisiologo Hans Selye per indicare, diversamente dall’uso quotidiano che se ne fa per descrivere uno stile di vita caotico e saturo di impegni, una ben precisa risposta dell’organismo. Il medico austriaco rilevò infatti come l’organismo in occasione di stimoli esterni in grado di alterare l’omeostasi interna rispondeva con un’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-midollare del surrene capace di ripristinare la condizione omeostatica precedente.
Per esempio una diminuzione improvvisa della temperatura esterna suscitava questa risposta di adattamento dell’organismo che scompariva una volta raggiunto nuovamente l’equilibrio interno.
Ben presto, dopo le iniziali scoperte di Selye, fu notato come la risposta di stress dell’organismo fosse suscitata da moltissime situazioni esistenziali quali la morte di un coniuge, la perdita del proprio ruolo sociale, difficoltà lavorative, e/o da stimoli psicologici interni, quali, per esempio, le pulsioni sessuali e aggressive in un adolescente, le vocazioni e le passioni che animano un adulto, e via dicendo.
Possiamo rilevare come tali situazioni, che chiunque di noi può trovarsi dinanzi, presentino una certa “cronicità”. Se nel caso di un lutto, o se si vuole anche davanti all’adolescenza, tale evenienza è immediatamente evidente, anche nelle altre condizioni non è detto che si torni agevolmente alla condizione di partenza. In altre parole, non è detto che si rivestirà nuovamente il vecchio ruolo sociale [1] o che si supereranno difficoltà lavorative in molte circostanze legate al contesto organizzativo stesso [2].
Il perdurare di una condizione critica, sia essa esterna o interna, con il connesso stato di tensione generale dell’organismo, comporta per la persona l’agire perennemente una risposta di stress generale senza che quest’ultima dia i frutti sperati. Tralasciando, per una questione di spazio, le conseguenze fisiche e organiche di una prolungata ma inefficace risposta di stress, possiamo notare come tale costante risposta alla situazione fonte di stress ci informi sul fatto che la persona stia vivendo una crisi psicologica. Sì, perché in qualche modo l’individuo si trova a fronteggiare un qualcosa che tocca, investe e coinvolge, la personalità nel suo complesso. Un qualcosa che pone spesso dinanzi a bivi, a scelte, domande sul senso della vita. Proviamo, comunque, ad argomentare meglio quanto poco sopra affermato. Il termine crisi trae la sua origine dal greco krisis, a sua volta proveniente da krino, ovvero separo e in un senso più ampio discerno, valuto, giudico. La medicina ippocratica era solita parlare di crisi per segnalare il momento in cui il decorso di una malattia tendeva ad evolvere verso un esito positivo o negativo. In sostanza, un momento di svolta, non una malattia in se per sé. Trasportando il concetto in ambito psicologico, Sifneos (1982) definisce la crisi come quello stato di sofferenza così intenso da costituire una premessa per un peggioramento o per un miglioramento della propria condizione psichica. Studiando il processo di crisi in generale, Paul Claude Racamier (1985), ha osservato come l’essenza di ogni crisi sia rappresentata dalla sua capacità di spazzare via l’equilibrio psichico raggiunto sino a quel momento. Tali rotture dell’equilibrio, intuitivamente comprensibili se torniamo con il pensiero al lutto o se immaginiamo un adolescente, “impongono” all’individuo di raggiungere un nuovo equilibrio complessivo. Per esempio, non si esce da un lutto se non approdando a nuovi investimenti affettivi, così come non si esce dall’adolescenza se non divenendo adulti. Per tale ragione la crisi, oltre ad essere un momento delicato e difficile, può in genere costituire un’opportunità per la personalità.
Se il parlare di crisi implica toccare la personalità, dobbiamo cercare di definire cosa sia la personalità. Generalmente, la personalità viene ritenuta quell’insieme di tratti psichici, di modalità relazionali e comportamentali, che costituiscono l’essenza di una determinata persona e che mostrano una certa stabilità sia nel tempo, sia nei diversi contesti ambientali di vita della persona stessa. Tale definizione ha il limite di offrire, per così dire, una visione troppo statica della personalità. Perché la personalità è stabilità, come si evince di questa definizione, ma è anche cambiamento. Chiunque di noi ripensando al se stesso di dieci anni prima, potrà ovviamente dire che è sempre la stessa persona, anche se contemporaneamente sa di non essere più la stessa persona. Muovendoci all’interno di un perimetro junghiano, possiamo ovviare tale difficoltà nel definire la personalità soffermandoci sul più ampio processo di individuazione riguardante ogni individuo. Secondo Carl Gustav Jung il processo di individuazione, cioè il divenire pienamente se stessi, quindi in un certo senso una personalità piena e matura, richiede un continuo processo di differenzazione dalle richieste dal mondo esterno e da quelle provenienti dal mondo interno. Se ci pensiamo bene, tale caratteristica del processo di individuazione, questo continuo confrontarsi con aspetti del mondo esterno e interno, entra in gioco ogni qual volta una persona deve compiere una scelta significativa per il proprio percorso esistenziale. Immaginiamo, per esempio, uno studente di 19 anni che deve decidere quale percorso universitario intraprendere. A livello ideale potremmo dire che la sua scelta dovrebbe cercare di coniugare la sua passione, le sue inclinazioni, quindi fattori interni, con un corso di laurea che possa facilitarlo nell’inserirsi nel mondo del lavoro, quindi con qualcosa di esterno. A livello pratico, la maggior parte delle volte, accadrà che magari un ragazzo darà più peso ai suoi aspetti soggettivi, mentre un altro seguirà solo logiche esterne optando per esempio per una certa strada solo perché magari un genitore già lavora in quel settore. Questo per dire che in linea generale le persone attribuiscono o un maggior peso alla loro soggettività, sono cioè tendenzialmente introverse dal punto di vista junghiano, o sono principalmente guidate dalla realtà esterna, ovvero psicologicamente estroverse.
Mettendo insieme i pezzi di quanto sino detto sino ad ora, e concettualizzando la personalità come un qualcosa di sottoposto a pressioni ed esigenze interne e esterne, possiamo “leggere” meglio la natura di ogni crisi psicologica: o l’introversione, o l’estroversione, pesano in maniera eccessiva sull’equilibrio psichico complessivo. Ha scritto Jung in “Energetica Psichica”: “L’uomo non è una macchina nel senso che possa compiere costantemente lo stesso lavoro: egli può rispondere all’esigenza della necessità esterna in modo ideale solo quando è adattato al proprio mondo interiore, cioè quando è in sintonia con se stesso. E viceversa può adattarsi al suo mondo interiore e raggiungere la coincidenza con se stesso solo quando è adattato anche alle condizioni del mondo circostante. L’una o altra funzione può essere trascurata solo per un periodo ristretto.» E in ogni crisi queste due dimensioni psichiche, l’introversione e l’estroversione, devono incontrarsi, o re-incontrarsi, in maniera diversa per uscire dal tremando impasse che la crisi stessa è lì a testimoniare.
[1] Si pensi per esempio al momento del pensionamento lavorativo. Non si tornerà indietro, e per molti uomini tale assenza di un ruolo costituisce un passaggio critico fortissimo perché è come se ci si sentisse spogliati della propria identità.
[2] Pensiamo a lavoratori sottoposti a turni massacranti e/o con un basso stipendio. Non è necessariamente detto purtroppo che tali problematiche vengano ovviate.