L’Accademia della Crusca ha rilevato che Google Italia restituisce circa 430.000 risultati se si digita sul motore di ricerca la parola resilienza. Un numero stratosferico, che testimonia l’enorme diffusione odierna di questo termine. Etimologicamente deriva dal verbo latino resilere, composto dal suffisso re e da silere: letteralmente il rimbalzare, il ritornare di colpo, il tornare indietro di fretta, di un oggetto; in senso figurativo il ritirarsi, il togliersi, da una situazione pericolosa.
Così, il termine resilio poteva essere usato sia per descrivere l’azione del far tornare velocemente una nave o un’imbarcazione che si stava capovolgendo in una buona posizione, sia per segnalare la necessità di ripiegare in fretta e furia da una battaglia. Tuttavia la sua attuale popolarità, pare discendere non dalla sua etimologia latina, quanto dall’uso che se ne fa in fisica e in ingegneria: in tali ambiti la parola resilienza indica la capacità di un materiale di reggere l’impatto di urti e pressioni esterne, grazie al suo sapersi piegare per poi tornare allo stato originario. Per fare un esempio, le corde di una racchetta da tennis sono resilienti, ovvero si contraggono e si deformano nel momento in cui vengono colpite dalla pallina per poi tornare nella posizione di partenza. In parole sintetiche, un piegarsi senza spezzarsi.
Tale piegarsi senza spezzarsi contiene in sé un che di evocativo a livello di immaginario collettivo – di qui probabilmente la fortuna del termine resilienza – perché in un certo senso è come se costituisse una potente e naturale metafora del come affrontare l’esistenza, poiché è come se il suo livello immaginale si trascinasse dietro la speranza di farcela davanti a quanto di difficile e complicato accade nella vita. Così, in economia è una comunità a divenire resiliente; in ambito di marketing e pubblicitario è un prodotto a manifestare resilienza; in psicologia si parla di persone resilienti e se ne studiano le caratteristiche, quasi per proporle a modello per gli altri; e via dicendo. Stefano Batterzaghi, in un articolo comparso su “La Repubblica” nel Gennaio del 2013, ha osservato come “resilienza” sia una parola-chiave del nostro tempo, non una semplice parola di moda. E’ come tutte le parole che godono di questo statuto di parola-chiave, sembrerebbe costituire un valore del nostro tempo: limitandoci all’ambito psicologico ciò vuol dire che essere resilienti pare essere un valore positivo sempre e comunque, un pochino come se esserlo fosse quasi sinonimo di essere vincenti e di una persona che lotta sempre e che, in un modo o nell’altro, ce la fa. E qui l’idea di resilienza comincia a mostrare alcune criticità.
Ripercorrendo brevemente l’uso del concetto nella letteratura psicologica, possiamo notare come da un iniziale uso limitato – per esempio da parte di autori come Micheal Rutter che studiò lo sviluppo di bambini figli di madri schizofreniche, o di Emmy Werner che eseguì una ricerca longitudinale sui bambini cresciuti in ambienti molto disagiati – a situazioni familiari traumatiche, esso si sia progressivamente esteso ad altre aree della psicologia, quali quella dello sport, quella positiva, quella del benessere, quella del lavoro, quella geriatrica, e via dicendo, al punto tale da allontanarsi dal suo significato originario in qualche modo legato ad una situazione da cui non si può fuggire in nessun modo. In altre parole, i bambini studiati da Rutter e dalla Werner, per la loro stessa condizioni di infanti, non avevano altra possibilità di scelta oltre al cercare di piegarsi senza spezzarsi per sopravvivere; mentre tutte le altre categorie di persone che oggi vengono osservate con l’idea di osservarne la resilienza avrebbero alternative. E ciò costituisce una differenza non trascurabile, che se dimenticata, come pare accadere oggi, conduce inevitabilmente a valutare la resilienza e l’essere resilienti come un valore in sé, il che invece, in presenza di possibilità alternative, sarebbe un qualcosa da verificare di volta in volta.
A ben vedere, infatti, il termine resilienza potrebbe essere tradotto con adattamento. E l’adattamento da un punto di vista psicologico non è un valore in sé, talvolta può essere una virtù stoica, in altre occasioni può tramutarsi in una prigione. Basiamoci su qualche esempio pratico. Per uno sportivo di alto livello avere resilienza in genere, non sempre comunque perché talvolta sembrerebbe solo prolungare l’agonia del ritiro, potrebbe essere una risorsa nei momenti di crisi, di difficoltà, in quanto lo potrebbe aiutare a coltivare un atteggiamento costruttivo verso lo stesso momento difficile che sta vivendo; idem, per un anziano con decadimento cognitivo, poiché in entrambi i casi si tratterebbe di adattarsi a delle nuove e complesse condizioni, ma sarebbe utile la stessa resilienza per un lavoratore sottoposto continuamente a mobbing e a stress lavorativo dalla sua stessa azienda? Molte volte no, molte volte converrebbe pensare, cercare, valutare, alternative lavorative. Talvolta – come in questo nostro ultimo esempio – potrebbe essere meglio lasciare andare in favore di un’apertura al nuovo e all’ignoto, anziché cercare a tutti i costi di piegarsi senza spezzarsi.
Carl Gustav Jung si è occupato moltissimo di nevrosi nella sua vita professionale, e in più occasioni ha osservato come essa possa insorgere in due modi alquanto diversi: talvolta è dovuta ad un eccesso di disadattamento alla realtà esterna, poiché la persona considera solo il suo mondo interno; in altre circostanze è esattamente l’opposto, cioè la persona sacrifica tutta la sua individualità a scapito di un eccessivo adattamento alla realtà esterna. Entrambi questi disequilibri possono causare nevrosi. Come si vede, in un caso c’è troppo poco adattamento verso gli obblighi e i doveri sociali, in altri esso è talmente massiccio verso quest’ultimi al punto che una persona può arrivare a dimenticare di essere un individuo con bisogni specifici e non solo una macchina produttiva e/o l’interprete di un ruolo sociale.
Con altre parole, in un caso potremmo dire che c’è carenza di resilienza, nell’altro che ce ne è un eccesso. Tutto ciò implica sia che l’avere resilienza non costituisce sempre e in ogni caso la soluzione giusta ad ogni situazione, sia, quindi, che andrebbe valutata di volta in volta la sua maggiore o minore presenza. Per muoverci in tale direzione, sarebbe forse opportuno chiamare la resilienza – visto il loro essere sinonimi – adattamento. Un termine quest’ultimo più neutro e freddo rispetto a resilienza perché non richiama nessuna speranza, ma che proprio in virtù di questa sua neutralità emotiva potrebbe facilitare un riflettere con più calma e senza ideologia sul costrutto “resilienza”, rendendolo così più clinico e meno un qualcosa dal sapore quasi magico capace di redimere dai mali del mondo. E per farlo non possiamo che separare resilienza e speranza.