L’uomo è da sempre considerato un “animale sociale”, che necessita in maniera equilibrata sia del gruppo, sia di un’intimità esclusiva caratteristica del legame sentimentale di coppia. Negli ultimi anni, tuttavia, l’intimità sembra più temuta ed evitata che ricercata. Il fenomeno sempre più ampio dell’essere single, o la quantità di coppie che conoscono una durata molto breve, è infatti un qualcosa di ben osservabile da chiunque.Per spiegare questo modo “cambiato” di stare in relazione rispetto al passato sono state avanzate ipotesi sia in campo sociologico che psicologico. Nel primo settore di studi, il famoso studioso Zygmunt Baumann, ha sottolineato come la “liquidità”, termine da egli stesso coniato, tipica della nostra società si rifletta anche nella relazioni intime. Più esattamente, in un dibattito pubblico tenutosi in Italia nel 2011, rispondendo ad una precisa domanda sul cosa egli ritenga le “identità liquide” ha risposto: “I liquidi non possono preservare la loro forma per troppo tempo, mutano continuamente e in maniera imprevedibile. La condizione di bisogno implica questa necessità di ri-identificazione continua che genera – da una parte – attrazione e – dall’altra – dolore.” In altre parole è come se fossimo divenuti iper sensibili al consumo, come se ci fosse stata una mutazione antropologica da cittadini a consumatori che influenza anche il modo in cui si “consuma” lo stare in relazione.
In ambito psicologico, i ricercatori legati alla teoria dell’attaccamento di Bowlby hanno evidenziato come molte persone che nell’infanzia hanno vissuto legami con i genitori, cioè con le principali figure d’attaccamento che dovrebbero fornire calore, sicurezza e sostegno, disfunzionanti, inaffidabili, o assenti, sviluppano una sensibilità al rifiuto tale da indurli a preferire l’assenza di una relazione intima, piuttosto che l’esporsi ad un nuovo possibile abbandono/rifiuto insito di per sé in una relazione. In alcune condizioni psicologiche, come nel disturbo evitante di personalità, questa sensibilità al rifiuto e il conseguente ritrarsi dalla relazione, anche se per altri versi ciò può essere segretamente desiderato, appare particolarmente evidente. In persone che sviluppano una condotta evitante, quest’ultima tendenza si manifesta infatti anche in relazioni non sentimentali, come quelle amicali o lavorative. Anche non volendo porre la nostra attenzione su un numero di persone piuttosto limitato, come quello relativo al numero di individui che potrebbero essere diagnosticati con un disturbo evitante di personalità, possiamo sostenere in tutta tranquillità che la sensibilità al rifiuto si presenta in molte persone che per il resto non hanno nulla a che vedere con il già menzionato disturbo evitante di personalità. In altre parole, la sensibilità al rifiuto è un tratto psichico molto diffuso nelle relazioni sentimentali contemporanee. Tale sensibilità al rifiuto, generalmente, inizia a manifestarsi nel momento in cui si è subita una profonda delusione amorosa: la ferita è stata, è, così lacerante che il timore di soffrire nuovamente, o il terrore che la propria fiducia possa essere nuovamente mandata in frantumi, sono così forti che ci si barrica dietro una chiusura. In questi casi il ‘non amare’ è un meccanismo di difesa che evita nuove possibili sofferenze. Molto spesso, a partire da questo assetto psicologico inizia una vita relazionale in cui nelle storie affettive, anche quando sono presenti, c’è poco investimento emotivo e uno scarso mettersi in gioco. Ovviamente, questo modo di fare è utile per tenere a bada nuovi innamoramenti, o la paura che una relazione possa in qualche modo cambiarci. Il limite più grande di questo modo, fisiologicamente umanissimo, di tutelarsi dalla paura di star di nuovo male è che ad un certo punto la chiusura verso l’esterno, nei confronti dell’altro, si tramuta in una corrispondente chiusura verso l’interno, verso il proprio mondo interno. Una delle più grandi scoperte della psicologia analitica è consistita nel riuscire a mostrare come in ogni uomo siano presenti interiormente elementi psicologici femminili, così come in ogni donna esistono aspetti psicologici maschili, che tendono a manifestarsi principalmente nella relazione con l’altro/a. Chiudersi all’altro vuol dire chiudersi a qualche aspetto di sé che si conosce con lo stare in relazione con l’altro. Giulia Valerio, un’analista junghiana contemporanea di primo piano, ha scritto in tema d’amore che non ci si innamora di un essere umano perfetto come tutti auspicheremmo, “ma della nostra parte più remota, lacera, sconosciuta, che racchiude le nostre ferite, il nostro complemento, ciò che vorremo lasciare fuori dalla nostra storia.” Nel momento in cui termina una storia significativa, se non si riflette su ciò, o se quanto meno non si prende in considerazione anche ciò, se non ci si interroga su quale nostro aspetto avevamo per così dire consegnato all’altra persona, è come se l’elaborazione di quanto accaduto rimanesse non del tutto compiuta e ciò può facilitare quell’atteggiamento di chiusura di cui si parlava in poc’anzi. Infatti, in molti casi quando finisce una storia si soffre e ci si vuol leccare le ferite, si pensa a sopravvivere più che a vivere, si vedono i tanti difetti e sbagli dell’altro, talvolta ci si domanda dove si è sbagliato, altre volte semplicemente non si vuol pensare e si desidera soltanto l’archiviazione del tutto il più velocemente possibile, ma il rinunciare a capire cosa ha profondamente significato l’altro/a nella nostra vita a lungo termine può risultare più deleterio che benefico. Perché potrebbe voler dire rinunciare all’amore e ciò implicherebbe, e qui facciamo ancora ricorso a Giulia Valerio, il mettere da parte “quell’impulso profondo che spinge l’Io a rompere i propri confini e a spogliarsi delle proprie certezze”, il far cadere quella pulsione presente in tutti volta alla realizzazione della propria personalità in tutte le sue sfaccettature esistenziali, e tra le quali l’amore non è certo la più trascurabile.