La morte è l’unico aspetto della vita che rende uguali tutti gli uomini, a cui nessuno può fuggire. Spesso è proprio questa condizione di mortali a spingerci verso l’evoluzione, la crescita, verso il vivere una vita completa e dotata di senso. A tal proposito basti pensare ad un bel film come L’Uomo Bicentenario (protagonista Robin Williams) dove viene trattato il tema della condanna all’immortalità: quest’ultima costringe un uomo-robot a non cambiare mai, a non invecchiare insieme alle persone che ama. Ciò gli blocca la vita, perché gli nega la possibilità di essere profondamente in relazione con l’Altro, così l’uomo robot fa di tutto per recuperare la possibilità di vivere le trasformazioni che vivono gli altri. Alla fine facendo appello ad un apposito tribunale, gli viene concessa per ricompensa la possibilità di rinunciare alla propria immortalità, al fine di farlo entrare pienamente nel mondo degli umani e delle relazioni umane.
Tuttavia, nulla toglie che la morte incuta terribilmente paura. A tal punto che nella nostra società, la morte sembra un vero e proprio tabù, un qualcosa di non vedibile e non nominabile. Scrive lo storico Philippe Ariès: “Nel nostro tempo si è proibito il tema della morte come nel secolo scorso quello del sesso. La contingenza, la finitezza, la fragilità, la sofferenza e la morte, come la sconfitta, come ogni tipo di perdita, non fanno parte del quadro mentale dell’uomo occidentale.” Per capire quanto sia vera questa affermazione, ci si fermi un attimo a riflettere su come il nostro principale mass-media, la TV, sia stracolmo a tutte le ore di persone giovani, belle e in perfetta salute. Così, ogni volta che ci troviamo dinanzi ad una perdita siamo disorientati e per lo più soli. Mancano spazi e riti per condividere il dolore. E questa solitudine finisce con il rendere i lutti ancora più cronici e patologici di quanto già possano essere.
Agli inizi della psicoanalisi, con Freud, il lutto era considerato un processo normale. Il fondatore della psicoanalisi si prodigò in un parallelismo tra Lutto e Melanconia, ma per quanto si rendesse intuitivamente conto di come un lutto potesse avere esiti nefasti, era più propenso a pensare che “il soggetto in lutto è realmente un infermo, ma il suo stato mentale ci appare comune e naturale e non lo chiamiamo malattia” (Freud 1915). In un lavoro successivo (1927) scrive: “Dall’analisi di due giovani uomini ho appreso che ognuno di loro, uno a due anni e l’altro a dieci, si è rifiutato di accettare la morte del padre…e però nessuno dei due ha sviluppato una psicosi. Una parte molto importante della realtà è stata negata dall’Io, ma solo una corrente dei loro processi mentali non si era resa conto della morte del padre; un’altra era pienamente consapevole della cosa; quella che era in accordo con la realtà (e cioè l’effettiva morte del padre) conviveva con quella che rappresentava un desiderio (che il padre fosse ancora in vita).” In questo scritto Freud, ponendo l’accento sul desiderio, tende un pochino a minimizzare la perdita realmente subita e, di conseguenza, è portato a non cogliere pienamente le conseguenze del lutto. Studi posteriori a Freud colmeranno questa lacuna, ben evidenziando come le perdite affettive possano avere pesanti riflessi sulla condizione psichica di una persona.
Nei decenni successivi a Freud è stato notato come il lutto presenti in tutti delle fasi fisiologiche. John Bowlby, che per anni ha studiato la costruzione e la rottura dei legami affettivi, nel corso delle sue ricerche ha identificato quattro fasi nel lutto:
- una prima fase di disperazione acuta, caratterizzata da protesta e stordimento. Generalmente questa fase si caratterizza per il rifiuto della perdita.
- una fase d’intenso desiderio e di ricerca della persona deceduta.
- una fase di disorganizzazione e di disperazione, nella quale la realtà della perdita comincia a essere accettata. Questa fase è dominata dalla sensazione che la vita non sia reale e la persona in lutto pare essere chiusa in se stessa, apatica e indifferente. La vita, agli occhi della persona in lutto, sembra aver perso significato.
- una fase di riorganizzazione, durante la quale gli aspetti acuti del dolore cominciano a ridursi e la persona afflitta comincia ad avvertire un ritorno alla vita.
Le ricerche di Bowlby hanno permesso a molti analisti di rilevare come molte persone rimangano impantanate in un lutto per anni e anni, sviluppando veri e propri disturbi psicologici legati in primo luogo alla sfera dell’umore. Di fatto un lutto può essere considerato superato solo se si riescono ad attraversare completamente tutte le fasi che esso presenta, e spesso ciò non accade.
Ovviamente non tutte le perdite sono uguali, e, fortunatamente, non tutte le perdite hanno il potere di “paralizzare” la vita di una persona. Varie ricerche hanno riscontrato come le perdite più gravi in assoluto siano quella del coniuge e quella di un figlio. In altre parole, maggiore è l’intensità del legame affettivo con la persona persa, maggiori sono le possibilità che il lutto si complichi.
Non è assolutamente facile, o nelle nostre possibilità, predire quali lutti saranno complicati e quali no. Si può solo affermare che alcuni fattori predispongono verso un lutto complicato: una morte inaspettata (le malattie terminali permettono di vivere il “lutto anticipatorio”), il non aver ben elaborato precedenti perdite, la mancanza di un adeguato sostegno sociale, una struttura di personalità incline alla depressione, sono tutti fattori che facilitano l’evenienza che il lutto si trasformi in cronico.
A questo punto una domanda viene spontanea: come si può aiutare una persona che vive un lutto cronico? In ambito psicoterapeutico è importante riprendere il cammino interrotto del lutto. Detto in altro modo, bisogna aiutare la persona a sperimentare le emozioni e il dolore connessi con il lutto.
L’essere bloccati nelle prime due fasi del lutto, solitamente cela emozioni inespresse avvertite come molto forti: rabbia, colpa, senso di impotenza, disperazione, senso di vuoto, sono il magma che si muove sotto il lutto. Aiutare una persona a riconoscere le proprie emozioni costituisce già un deciso passo avanti.
Tuttavia, molte persone rimangono congelate nella fasi finali del lutto: non riescono proprio ad accettare la perdita, e non riescono a trovare energia sufficiente per investire in nuovi legami affettivi. A tal proposito, un’affermazione che Jung ripete più volte può tornare molto utile: “Per vivere bisogna saper morire.” Con ciò il grande analista svizzero intendeva dire che la vita ci impone numerose morti simboliche. Ovvero ci chiede la capacità di essere aperti ai cambiamenti e alle trasformazioni psichiche riguardanti noi stessi e le relazioni che ci circondano. Tornando al lutto, ciò vuol dire che quando muore una persona cara bisogna lasciar morire il tipo di relazione che avevamo con lei, per viverla su un altro piano.
A livello terapeutico questa trasformazione della relazione, assolutamente necessaria per accettare la perdita, non avviene per tutti alla stessa maniera, essendo essa una trasformazione simbolica. Lo stesso Jung nella sua splendida autobiografia, Sogni-Ricordi-Riflessioni, racconta che dopo la morte della moglie ha sentito l’esigenza di portare a termine alcuni lavori iniziati dalla stessa (gli studi sul Graal), per riuscire a portare a termine il lutto e vivere in maniera diversa la relazione psichica con la propria compagna di una vita.
Verena Kast, significativa analista contemporanea, sottolinea come per vivere il distacco sia necessario saper portare dentro di sé la persona persa, imparando ad instaurare un dialogo profondo con una figura non più esterna e reale, bensì interiore. Una sorta di relazione interiorizzata, che sopravvive alla morte, e fa riprendere il flusso della vita.
Concludendo si può dire che il percorso terapeutico dovrebbe servire a trasformare l’esperienza atroce della perdita in un’esperienza simbolica, carica di senso, per far sì che il dolore possa tramutarsi in forza.