Negli ultimi anni, forse sarebbe meglio dire negli ultimi due-tre decenni, la psichiatria e la psicologia si sono trovate a misurarsi sempre più con lutti per così dire „sospesi“. Naturalmente il tema lutto è da sempre presente nella letteratura specialistica in materia, basti semplicemente pensare che già Freud affrontò l’argomento in „Lutto e Melanconia“ nel 1915, o al fatto che ad esso hanno dedicato ampi studi e ricerche studiosi del calibro di Bolwby e Parker. Tuttavia mai come in questo periodo storico in cui la morte pare essersi eclissata dai costumi e riti sociali, trasformandosi così in un qualcosa di intimo e privato, il tema lutto è motivo di consultazione analitica.
Non a caso le ultime edizioni del Dsm hanno cercato di occuparsi del fenomeno lutto dedicandole un’attenzione specifica. Anche se a dire il vero, il modo con il quale viene approciato il tema suscita o quanto meno ha suscitato, come vedremo a breve, non poche perplessità. Per esempio, nel Dsm IV si legge che „come parte della loro reazione alla perdita, alcuni soggetti si presentano con i sintomi caratteristici di un episodio depressivo maggiore,“ specificando poco più avanti che tale diagnosi può essere fatta a condizione che siano passati almeno due mesi dalla perdita. Oltre ad essere veramente curiosa questa indicazione temporale così succinta, al punto che non possiamo non chiederci se ciò non rifletta la tendenza alla velocità e all’efficienza tipiche della nostra cultura, a suscitare forti perplessità è questo equiparare lutto e depressione. Così facendo, il dolore viene trasformato in malattia. Infatti, gli stessi curatori della quinta edizione del Dsm hanno corretto e ammorbidito la loro posizione. I due mesi sono diventati sei, e, soprattutto, il lutto è un qualcosa di considerato a sé stante e non una variante della depressione. Questa nuova categoria diagnostica, che in ogni caso sarà oggetto di revisione, tiene conto delle emozioni di nostalgia, rabbia, tristezza, senso di vuoto, di colpa, e delle difficoltà lavorative e sociali che accompagnano la persona in lutto. Se pare esserci un limite in questa visione diagnostica, che comunque corre ancora il rischio di voler medicalizzare la sofferenza esistenziale, è che i criteri elencati paiono per così dire troppo severi e finiscono con il non cogliere del tutto la condizione emotiva di molti lutti complicati. Infatti, molte volte è possibile osservare che le persone con un lutto di difficile elaorazione in realtà non presentano una compromissione lavorativa o sociale, non mostrano segni di mancata accettazione della perdita, e in qualche modo hanno elaborato eventuali sensi di colpa connessi all’accaduto, così come in linea più generale hanno compreso, sperimentandolo sulla loro stessa vita, l’evidenza che la morte è presente e parte ineliminabile della vita. Nonostante ciò le loro vite paiono sospese, qualcosa a livello affettivo è rimasto fermo e attaccato alla perdita. La vita di queste persone procede spesso su un doppio livello: da una parte la vita si è riorganizzata e scorre, in un’altra area poco visibile e molto privata qualcosa è fermo.
In questo breve articolo, vogliamo occuparci di quest’area ferma che fornisce al lutto quell’aurea di irrisolto e avanziamo l’ipotesi che tale area ferma abbia a che vedere con una domanda di senso. Non tanto con il senso della perdita, quanto con la neccesità di trovare un senso alla vita della persona scomparsa. Glen Gabbard (2000), dopo aver revisionato con attenzione e intelligenza tante ricerche sul lutto, ha elencato una serie di fattori, quali la presenza di altri lutti precedenti, la modalità improvvisa della scomparsa, l’importanza affettiva della perdita, la presenza di un rapporto molto ambivalente con il defunto, che possono rendere più complicato e difficile un lutto. Tutti aspetti che rivestono un certo peso, e che naturalmente in ambito terapeutico vengono considerati. I lutti di cui ci stiamo occupando mostrano tuttavia quasi sempre una caratteristica in piu: il bisogno di dover trovare una collocazione al significato che ha avuto la vita della persona scomparsa, perchè è come se la vita della persona in questione fosse stata priva di risultati familiari e/o di carriera o, in altre occasioni, in qualche modo incompiuta e spezzata dalla precoce brutalità della morte. Questa seconda evenienza pone spesso dinanzi al dramma di una donna che rimane vedova troppo subito, di un adolescente che perde un genitore ancora cinquatenne per via di una malattia fulminea, di una sorella che ha visto andar via l’amata sorella a causa di una banale operazione non riuscita senza che questa lasciasse neanche il tempo di poter provare a realizzare i sogni di una vita. Le perdite non precoci, ma che lasciano comunque perplessi e sgomenti, sono quelle di quelle persone che si sono battute per conservare una famiglia senza riuscire ad averla, quelle vite cariche di sofferenza, per una serie di mille incidenti di percorso, che non conoscono il lieto fine. Quelle vite, in altre parole, al cui termine il bilancio non torna. In entrambi i casi le perdite rimangono così una ferita perchè non si riesce a comprendere il significato della vita di quella specifica persona. Dolori per cui non si riescono a trovare le giuste parole, lasciando involontariamente a chi rimane una scomoda eredità psicologica. Si è così dinanzi all’immane compito di restituire luce ad una vita che avuto poco la possibilità di essere luminosa.
Ma come si può restituire luce a ciò che non è mai riuscito a compiersi del tutto ? Un modo per cercare di farlo è legato al constatare che psicologicamente tra vivi e morti c’è più legame di quanto possa sembrare a prima vista. E ciò, paradossalmente, è più facile con quelle perdite che sono avvenute troppo in anticipo. La morte, infatti, non spezza il legame psicologico-affettivo con la persona deceduta, e, in qualche modo, è benefico il fatto che chi resta possa portare avanti qualche idea, qualche progetto, qualche speranza, di chi non c’è più. E‘ importante, in altri termini, cercare di rendere giustizia psicologica a chi è andato via. Quella persona è andata via, ma qualcosa di ella è restato. La sua permanenza sulla terra non è stata inutile. E ciò facilita nel collocare il lutto in una dimensione diversa.
Diverso il discorso per chi ha avuto una vita anche sufficientemente lunga, ma piena di sfortune e disgrazie. Tanto impegno che tuttavia non ha evitato che la vita andasse molto diversamente da quanto la persona stessa si sarebbe aspettata. Da questa prospettiva il caso più estremo può essere rappresentato dal genitore che si suicida. Si capisce intuitivamente come per chi resta non sia per nulla semplice dar luce a tutto ciò.
Rispetto a questo difficilissimo compito, in ambito terapeutico possiamo notare come i sogni intervengano per offrire un prezioso aiuto alla persona in lutto. Osservando con attenzione e cautela i processi onirici possiamo rilevare come essi tentino infatti di proporre un’immagine diversa del defunto. E‘ come se cercassero di far emergere, mettendo misteriosamente e creativamente insieme frammenti di ricordi – pezzi di frasi – interazione di sguardi – gesti caduti nel dimenticatoio, aspetti irrisolti del defunto nel tentativo di far emergere una colpa senza che essa sia però accompagnata da una crocifissione. Alcuni sogni mostrano così che una determinata persona ha insistito eccessivamente in un matrimonio, che avrebbe dovuto invece lasciare andare, per il desiderio troppo forte di avere quella famiglia mai avuta da bambino; altri evidenziano che chi per esempio ha sofferto troppo per la disabilità del figlio avrebbe dovuto lottare meno per cambiare lo stato delle cose. Detto in altro modo, è come se il sognatore dovesse riuscire a „risolvere“, nel senso di vedere, la difficoltà psicologica che la persona deceduta non è mai riuscita ad inquadrare del tutto consapevolmente durante la propria esistenza.
Un meccanismo psicologico del genere è ben visibile in „Saving Mr. Banks“, film che racconta il difficile rapporto tra la scrittrice di origine australiana Pamela Travers, ideatrice di Mary Poppins, e il produttore cinematografico Walt Disney. La scrittrice impiega 20 anni per cedere i diritti del suo personaggio perchè non vuole né che il Sig. Banks, padre dei due bambini di cui si occupa Mary Poppins, venga descritto in termini troppo negativi, né che non abbia la possibilità di uscire dal film in maniera dignitosa e riabilitata. Per la scrittrice, infatti, la tata più celebre del mondo, come ben si capisce nel film, viene per salvare mr. Banks e non i bambini. In ciò c’è molto di autobiografico per la Travers perchè suo padre era un uomo buono, creativo, fantasioso, e con un legame molto intenso con la figlia, ma in un certo senso era anche prigioniero della banca presso cui lavorava. Un uomo bloccato tra il doversi occupare del denaro per sostenere la sua famiglia, a cui pare sinceramente legato, e il seguire con più convinzione la propria vocazione creativa. Sospeso e inchiodato da questa condizione irrisolta, il padre della Travers morirà a causa dell’alcool lasciando la famiglia e la figlia in cattive acque. Cattive acque rese ancora più torbide per la Travers dall’essersi sentita tradita e abbandonata dall’amato padre.
Tornando al film, è evidente come nel momento in cui la figura di Mr. Banks/padre della Travers non viene dipinto come un mostro, bensì come un uomo di cui si può cogliere l’umana fragilità, la scrittrice acconsente alla produzione del film e riesce dopo tanti sofferti anni a digerire il suo lutto. Perchè adesso il padre è digeribile e quindi anche il lutto lo è.
Carl Gustav Jung in „Psicologia e Alchimia“ scrive che „ci si può lasciar sfuggire, mancare, non soltanto la propria felicità, ma anche la propria colpa decisiva, senza la quale un uomo non raggiunge mai la sua totalità“ (C.G.Jung, 1943, pag. 33). Così come alla Travers è toccato cogliere quale fosse stata la colpa/errore del padre, senza che per questo egli dovesse essere ritenuto cattivo, per poter tornare completamente alla sua vita; così molte volte i sogni aiutano chi è restato a vedere qualcosa del defunto, che il defunto stesso non vedeva di sé stesso, per facilitarlo nel congedarsi con il cuore pacificato da chi ormai purtroppo non c’è più.