Leggerezza, Pesantezza, Arte

Leggerezza, Pesantezza ArtePartiamo da un episodio realmente accaduto: un ragazzo ha appena saputo che il cugino di una sua amica è deceduto di colpo, per caso la incontra per strada in compagnia di amici e le si avvicina per porgerle le condoglianze; così fa, e questa ragazza si irrita per il gesto. Piuttosto sorpreso, qualche giorno dopo prova a chiederle se in qualche modo fosse stato inopportuno poche sere prima: “Ero insieme ai miei amici, non sapevano nulla dell’accaduto, non avevo detto nulla a nessuno perché non volevo rendere la serata pesante per tutti…”, la laconica risposta della ragazza che lo lascia senza parole.

“Pesante” è una parola che ricorre moltissimo nei racconti delle persone, soprattutto se più giovani. Ogni cosa difficile, impegnativa, o più semplicemente fonte anche di tristezza o paura, cade sotto la scure della rimozione, viene cioè bandita e allontanata da qualsiasi contesto interpersonale, poiché se si è pesanti non ci si può divertire, non si può star bene insieme.

Tale impostazione relazionale ha a suo modo una sua logica, ma inevitabilmente si porta dietro un grosso limite: tenendo fuori tutto ciò che è emotivamente impegnativo, spinoso, difficile da capire in sé e negli altri – lasciando in sostanza fuori dalle relazioni ciò che è psicologicamente delicato e bisognoso di attenzioni – si finisce con l’essere paradossalmente più soli. Una solitudine questa sì pesante, poiché la si avverte nonostante si sia spesso insieme a tante altre persone. Tornando sul nostro esempio iniziale, allontanare l’Ombra della morte rende solo più soli poiché il dolore e la paura non scompaiono con la sola rimozione dell’accaduto. Purtroppo tale “strategia” non funziona, anzi la repressione di una tematica psicologica importante comporta quasi sempre un riflesso affatto secondario: quello stesso contenuto psicologico tende ad ingrandirsi, a divenire via via più influente nell’economia psichica di quella specifica persona. Pensiamo per capire meglio quest’aspetto un attimo a dei bambini piccoli, più o meno intorno ai tre anni. Come ogni genitore ben sa, i bambini di quella fascia di età hanno spessissimo paura del buio. Se lasciati soli dinanzi a questa paura, essa si tramuta in un terrore che genera mostri e personaggi inquietanti, come se quest’ultimi sbucassero o nascessero dal buio; se al contrario, il genitore ascolta il figlio, senza rimproverarlo, ma al contempo senza lasciarsi spaventare dal racconto del bambino, quella stessa paura si depotenzia e diviene più digeribile per il bimbo. Che succede? Nel momento in cui si narra qualcosa ad una persona che ascolta con attenzione, l’oggetto del racconto – per usare un’espressione di Edward Edinger – prende corpo, assume cioè una fisionomia diversa, diviene cioè più rappresentabile, e pensabile. Un mostro raccontato diviene, per così dire, meno mostruoso. Questo non vale solo per un bambino, ha un valore anche per l’adulto perché fondamentalmente siamo esseri umani relazionali.

Pensando a quanto detto sino ad ora, si intuisce facilmente come il non poter condividere aspetti delicati e privati costituisca una significativa difficoltà contemporanea. Tuttavia, tale dinamica psicologica non viene colta, poiché in genere viene data per scontata e indiscutibile l’evenienza per cui non bisogna mai essere “pesanti”, il che conduce a chiedersi cosa può essere di ausilio nel far cogliere le conseguenze di tale processo psicologico di rimozione degli aspetti ombrosi dell’esistenza. Naturalmente la psicoterapia, con tutti i suoi strumenti, potrebbe esserlo, ma in questo breve scritto vorremmo concentrarci sul possibile contributo che potrebbe arrivare dall’arte. Quest’ultima in genere, attraverso il cinema, la pittura, la scultura, la letteratura, e tutte le altre sue declinazioni, serve anche a porre l’uomo dinanzi a sé stesso, come se funzionasse come uno specchio speciale capace di riflettere anche il non immediatamente visibile. Prendiamo il caso letterario, in seguito anche cinematografico, de “Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde”, dove l’irreprensibile Dr. Jekyll, così luminoso proprio per aver rimosso tutti i suoi istinti, sfocia nel brutale Mr. Hyde che lo porterà alla distruzione. Se ci pensiamo bene, questo denso e drammatico romanzo di Robert Louis Stevenson poneva la società vittoriana davanti alla sua doppia morale, al suo egoismo, alla sua ipocrisia, e via dicendo. Con un linguaggio maggiormente psicologico, potremmo dire che quel romanzo offriva agli inglesi di quel periodo la possibilità di vedersi, ovvero di cogliere un loro generale processo psichico del tempo. In quel caso, quindi, l’arte ha permesso di ampliare lo sguardo.

Naturalmente, tale funzione l’arte la svolge anche oggi, il che implica che potenzialmente può dare una mano rispetto al tema del “non voler essere pesanti”. Il rovescio della medaglia di questo moderno dettame sociale è che si è quindi alla ricerca di leggerezza, ma è davvero plausibile pensare di arrivarci rimuovendo ciò che pesa? Se attingiamo dal mondo dell’arte, giungiamo alla conclusione che non lo è. Fermiamoci per esempio su “Il Pensatore” di Auguste Rodin. L’artista francese concepì l’opera come una rappresentazione di Dante che medita sull’inferno, un suo modo per ringraziarlo poiché lo riteneva un autentico “visionario” capace di tracciare una rotta da seguire nella vita. E Dante quale verità psicologica ci rammenta? Che non si può arrivare in paradiso, in alto, verso la luce, se non attraversando prima le fiamme, il buio, e le difficoltà dell’inferno. Ergo, non ci può essere leggerezza se non passando per ciò che è terreno, corporeo, pesante. Nel commentare la sua opera, Rodin ha scritto: “Quel che rende il mio Pensatore pensante è che non pensa solo con il cervello, con la sua fronte accigliata, le sue narici aperte e le braccia tese, ma anche con ogni muscolo delle sua braccia, schiena e gambe, con i suoi pugni chiusi, con i suoi piedi contratti”, quasi come a ricordarci che per essere pensanti, ovvero pienamente umani, bisogna in qualche modo coinvolgersi totalmente anche verso quel qualcosa di pesante – nel caso de “Il Pensatore” l’inferno – che con ogni probabilità incute timore.

Erwin Panofsky – uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento -sosteneva che il patrimonio culturale e artistico è basilare per rimanere in contatto con quanto di umano c’è nell’uomo. Da questo punto di vista, “Il Pensatore” di Rodin è Arte con la “A” maiuscola perché con la sua plastica possenza ci ricorda come la vita e le relazioni interpersonali necessitino di un coraggio che permetta di gettare il cuore oltre l’ostacolo rispetto all’affrontare gli aspetti più ombrosi dell’esistenza. Pensiamoci un secondo, se si riesce a coltivare verso la pesantezza il coraggio fermo a cui sembra rimandare “Il Pensatore” che è lì davanti all’inferno dantesco, si è nella precondizione di poter trasformare la pesantezza in profondità, cioè in quella dimensione psichica che permette un volare alto basato su radici solide e non sulla contemporanea pretesa illusoria che si può essere leggeri solo rimuovendo ciò che non piace e turba. E quando ciò accade la vita sembra, non così diversamente da una scultura che nasce da una pietra grezza, acquisire uno spessore diverso.

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