La vergogna è un’emozione decisamente paradossale. Da una parte sembrerebbe essere indicibile o comunque molto privata, “la cenerentola delle emozioni spiacevoli” per usare un’espressione dello psicoanalista Rycroft (1970), da un’altra parte parrebbe essere intrinsecamente legata all’altro, o per essere più precisi allo sguardo dell’altro.
Per avere un’idea di quanto la vergogna sia connessa allo sguardo altrui, si pensi per un attimo a quella che con ogni probabilità è la prima esperienza di vergogna che ogni essere umano sperimenta: il momento in cui inizia ad esserci il controllo sfinterico. Chi ha una certa familiarità con i bambini, avrà avuto modo di notare come il bambino non voglia essere visto nei momenti in cui compie i suoi primi tentativi di gestire gli sfinteri. Molti genitori rimangono stupiti dal fatto che il loro piccolo desideri privacy e tranquillità per quel momento, che provi vergogna verso le sue principali fonti di rifornimento affettivo. Come ha osservato Erickson (1974) ciò implica che il bambino è consapevole di essere osservato, e pertanto potenzialmente esposto al giudizio altrui. Fin dalle sue origini, la vergogna, si rivela un ‘emozione molto corporea: un’altra fase dello sviluppo in cui è molto presente coincide con le trasformazioni puberali dell’adolescenza. Un adolescente potrebbe indugiare ore nel guardarsi in uno specchio, nel cercare il look giusto, nel chiedersi come lo vedono e cosa pensano di egli gli altri coetanei. Da questi esempi, si può quindi dedurre che la vergogna serva a proteggere, a tutelare, il senso di se nei momenti psichici in cui il proprio senso di se avverte di essere minacciato ed esposto a situazioni spiacevoli. In senso junghiano, la vergogna può essere intesa come quell’emozione che favorisce un momento di introversione utile per raccogliere quelle forze e quelle risorse psichiche necessarie per superare un momento delicato. Facendo ritorno ai nostri esempi poco sopra menzionati, è come se dicessimo che, il bambino alle prese con gli sfinteri e l’adolescente alle prese con i cambiamenti adolescenziali, si “ritirassero” temporaneamente in se stessi per riuscire ad affrontare al meglio il compito evolutivo che li attende.
Se, come si può evincere dal discorso sin qui sviluppato, la vergogna è un’emozione connaturata allo sviluppo dell’essere umano e non affatto negativa, in che circostanze essa diventa invalidante per la vita psichica di un individuo? La risposta a tale domanda è piuttosto semplice: nel momento in cui la vergogna, da transitoria e utile a stimolare una risposta maggiormente adeguata rispetto ad una data situazione, si trasforma in un vissuto cronico inizia a mostrare i suoi effetti negativi.
Nel lavoro terapeutico la vergogna è spesso particolarmente osservabile in alcune tipologie di persone, per esempio nei disabili, negli omosessuali, nelle persone che presentano un forte evitamento di situazioni interpersonali, in taluni pazienti psicotici, e più in generale in quei pazienti affetti da quel “narcisismo ipervigile” di cui ha parlato brillantemente Glen Gabbard (2000). In tutte queste condizioni, spesso, l’individuo non si avverte come un essere umano che può fare, non diversamente da chiunque altro, qualcosa di sbagliato, bensì come egli stesso sbagliato. Sbagliato a prescindere. La vergogna viene quindi vissuta non in relazione a qualcosa, ma in relazione a quel che si è. In sostanza, colpisce direttamente l’identità di una persona generando danni. La vergogna cronica diviene fonte di smarrimento esistenziale, e il suo essere abitante quotidiana del mondo interno la conduce spesso ad essere l’origine invisibile di rabbia, impotenza, fantasie ipocondriache, vissuti persecutori. Nel lavoro terapeutico con questi pazienti è di primaria importanza elaborare, capire il perché o i perché, di questo sentirsi così pervasivamente inadeguati. Un elemento comune che emerge in molte storie dei pazienti è il non essere stati sufficientemente considerati soggetti nel senso più lato del termine. Per esempio la famiglia della persona che manifesta qualche disabilità che si sente autorizzata a decidere per egli; i genitori della persona omosessuale che non riescono ad accettare l’omosessualità del figlio/a e trattano il tema omosessualità al pari di una malattia; la persona che più in generale è stata trascurata nei suoi bisogni, non sostenuta rispetto alle sue inclinazioni e via discorrendo. E’ come se lentamente e nel tempo queste persone fossero state oggetto di squalifiche narcisistiche mediante una, più o meno silente, svalutazione del proprio valore intrinseco e delle proprie capacità. In altre parole, una ferita narcisistica che genera un vivere nella vergogna. Per ricorrere ad un concetto dello psicoanalista Masud Khan (1983) queste persone più che aver vissuto un trauma acuto hanno sperimentato un trauma cumulativo. Un qualcosa che ha fatto percepire se stessi profondamenti diversi. E un buon percorso terapeutico non può eludere il tema del sentirsi diversi, perché la propria diversità contiene il germe della propria specificità, delle proprie inclinazioni. Contiene la propria ricchezza. E per non cadere dentro quell’aridità psichica figlia del dover essere come gli altri vorrebbero che fossimo, la vergogna è lì per ricordarci che se non vogliamo più provare vergogna per quel che siamo dobbiamo tentare, con tutti i nostri limiti, di vivere diversamente il rapporto con quel che più profondamente siamo.