Parlare di speranza in analisi equivale grosso modo a parlare di un qualcosa che aleggia continuamente nell’atmosfera che pervade la stanza analitica. Non è casuale, a controprova di ciò, di come nel momento in cui muore la speranza si assista spesso ad una repentina sospensione del percorso terapeutico. Talvolta, per esempio, un lutto improvviso e significativo nella vita del paziente finisce con il non far più intravedere il senso e il valore del percorse analitico, determinandone così la brusca interruzione, proprio perché capace di mortificare ogni residua speranza di avere un’esistenza migliore. Sospensioni così improvvise dei percorsi terapeutici dimostrano come la speranza possa essere genericamente considerata un’attesa fiduciosa, non diversamente da come già ipotizzato da un grandissimo del pensiero greco, quale Aristotele, e dal pensiero cristiano.
Aristotele immaginava la speranza come il frutto di un’abitudine virtuosa che permette l’avvicinarsi ad un futuro migliore non impossibile da realizzare; mentre la Chiesa considera la speranza la seconda di quelle tre virtù teologali, preceduta dalla fede e seguita dalla carità, che possono favorire la rivelazione di Dio, speranza per eccellenza per il fedele. Da questo rapidissimo excursus nella storia del pensiero occidentale, di cui potremmo trovare tracce in numerosi altri filosofi, risulta evidente come la speranza sia inevitabilmente collegata con l’idea di un futuro migliore, carico, per usare le parole di San Paolo, di “un’ardente aspettativa”.
Tali aspettative e speranze nell’incontro analitico sono sovente silenziose, spesso vengono definite dal paziente attraverso un genuino ma generico voler star meglio. Ogni individuo, ogni paziente, ha comunque un suo modo, seppur taciuto, di immaginare e fantasticare il suo star meglio. Non è detto, purtroppo, che queste speranze siano sempre ben fondate. Talvolta sono più prossime a delle ingannevoli illusioni o ad un facile ottimismo non necessariamente giustificato. Alcune volte, per esempio, il paziente potrebbe avere la speranza illusoria che il dottore abbia la soluzione immediata delle sue difficoltà; altre volte si attribuisce all’analisi il potere quasi magico di far accadere eventi che si desiderano, come l’aiutare a trovare il/la partner ideale; altre volte si fantastica in maniera eccessivamente ottimistica sul fatto che le sedute saranno capaci di proteggere dal dolore o da qualsiasi scelta sbagliata. E nel momento in cui cadono queste speranze, nel momento in cui vengono disattese e deluse, c’è il rischio che venga vanificato anche tutto il resto del lavoro fatto insieme. Del resto, come dice Jung con un’espressione fulminea, “neppure le illusioni più care durano per sempre.” Per questo è bene cercar di capire che idee sulla speranza attiva lo specifico percorso di ogni paziente, perché altrimenti tali idee saranno presenti sullo sfondo della stanza analitica senza che siano state elaborate coscientemente e proprio per questa ragione potrebbero irrompere sulla scena in maniera irruenta e, cosa forse più importante, non sempre in un modo proficuo.
Parlare di speranza e speranze con il paziente non vuol dire frustrarne tutte le aspettative, perché l’uomo ha bisogno di sperare e di vivere una tensione verso il futuro nella quale possano inserirsi i desideri, i progetti, la personalità stessa di colui che spera. L’uomo non può non sperare, perché non farlo equivarrebbe ad immaginarsi senza futuro. “La mancanza di speranza è il tratto fondamentale del bambino deprivato,” scrive Donald Winnicott, e tale condizione di deprivazione, se prolungata nel tempo ed estesa alla vita adulta, rende la vita infernale perché capace di gettare in uno stato di disperazione, ovvero in una totale condizione di assenza di speranza. Cosa può voler significare vivere senza speranza è ben raccontato nel mito di Pandora. La storia è nota, ma vale la pena ricordarla brevemente: il divino Zeus ancora infastidito dal furto del fuoco protratto dall’umano Prometeo, decide di punire, oltre a Prometeo che si ritrova già incatenato su una montagna dove un’aquila gli mangia di giorno un fegato che gli ricresce di notte, anche tutta l’umanità per l’affronto subito. Per farlo mette in atto uno stratagemma: fa costruire da Efesto la bellissima Pandora, che viene fornita dagli altri dei di coraggio, intelligenza, astuzia, e curiosità, e la concede in sposa a Epimeteo, il fratello minore di Prometeo. Epimeteo e Pandora, non dando ascolto alle raccomandazioni di Prometeo che gli aveva fortemente suggerito di non accettare alcun regalo da parte del re dell’Olimpo, vedono recapitarsi da Zeus un bellissimo vaso che, come sottolinea lo stesso Zeus, non deve essere mai aperto. Ma Zeus, che vuole con astuzia punire il genere umano, conosce la curiosità di Pandora e sa già che ella non resisterà alla tentazione di vedere cosa nasconde questo prezioso scrigno. Così un giorno Pandora, catturata dall’irrefrenabile curiosità, apre il vaso e prima che faccia in tempo a rinchiuderlo sono ormai usciti tutti i mali del mondo, quali vecchiaia, gelosia, invidia povertà, malanni, e via dicendo. Il mondo si trova così da quel giorno in uno stato di disgrazia e disperazione. Vivere pare dunque impossibile per chiunque. Pandora apre allora una seconda volta il vaso che aveva frettolosamente chiuso, ed esce l’ultima cosa che era rimasta dentro, ovvero la speranza che vola per il mondo per portare conforto all’essere umano. E così il mondo riacquista un po’ di colore. La speranza, come possiamo ben intuire da questa vicenda mitica, è quindi un motore ineliminabile dell’agire umano e il discuterne in analisi può servire per tramutare la speranza da un qualcosa di più prossimo all’illusione in un qualcosa di più maturo e fondato.
Come può avvenire tale trasformazione della speranza? E come si può coltivare in una maniera positiva tale potentissimo fattore motivazionale? Per cercare di rispondere a tali difficili domande, può essere utile fare un tuffo nella biografia di qualche grande personaggio storico che può fornirci qualche interessante spunto di riflessione in proposito. Senza andare eccessivamente lontani nel tempo, possiamo guardare più da vicino il drammaturgo, dissidente, scrittore, poeta, politico, e poi futuro capo di stato della Repubblica Ceca, Vaclav Havel. Havel faceva parte del gruppo di dissenti, allora cecoslovacchi, che negli anni successivi alla Primavera di Praga diedero vita al gruppo, di cui egli era portavoce, “Charta 77” impegnato nel promuovere i diritti civili basilari nel proprio paese. Per tale ragione finì più volte in carcere. Nel 1983 il regime filo sovietico guidato da Gustav Husak, per cercare di rendere il clima nel paese un pochino più disteso, gli offrì la libertà in cambio della presentazione di una domanda di grazia. Havel, nonostante la sua salute fosse in quel periodo piuttosto malandata, decide di non accettare tale proposta perché farlo avrebbe significato ammettere una qualche colpevolezza di cui egli non vedeva traccia nella sua storia. Naturalmente Havel in quel momento non sapeva come sarebbe andata la sua vicenda, ma nonostante il carcere lo sottoponesse a durissima prova sia fisica che psichica decise ugualmente, pur di rimanere fedele a sé stesso, alle sue idee, e ai suoi valori, di declinare l’offerta. Perché? “Il dissidente – scrive Havel in “Il Potere dei senza potere” – conduce una vita nella verità, in cui ritrova la propria dignità.” Possiamo quindi immaginare che l’accettare la proposta per uscire di prigione, cosa che gli avrebbe garantito enormi vantaggi personali, avrebbe significato rinnegare sia quella responsabilità da conservare dinanzi a sé stessi su cui si dilunga proprio ne “Il Potere dei senza potere”, sia non riconoscere la dignità e il valore della propria storia. In estrema sintesi, avrebbe significato tradire sé stesso e uccidere la speranza di un futuro diverso.
Rispetto a quella vicenda Havel dirà poi: “La speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire”. La distinzione di Havel tra speranza e ottimismo permette di cogliere come l’ottimismo sia legato ai risultati, mentre la speranza lo sia al senso profondo di qualcosa. La speranza di cui parla Havel è qualcosa che si libera della concretezza del risultato e del qui e ora. Nel momento in cui la speranza si unisce al senso si tramuta in un potentissimo fattore energetico che permette di andare oltre e di scavalcare le difficoltà di uno specifico momento, perché nella sua unione con il senso la speranza lascia scorgere qualcosa di nuovo ed agisce, metaforicamente parlando, come un ponte che permette di approdare sull’altra riva di un pericoloso guado esistenziale. Perché attraverso il legame tra speranza e senso si riconosce, magari a fatica, una visione, una strada da percorrere. E quando ci si trova su una strada che si riconosce come la propria strada, la sofferenza diviene molto più sopportabile.
Anche se nessuno di noi, fortunatamente, si trova a vivere vicende tanto difficili quanto quelle di Havel [1], la distinzione tra speranza e ottimismo di Havel può essere molto utile in genere, e in ogni caso pare esserlo nel contesto analitico. Qualche volta l’analisi è attraversata da periodi di crisi, tutto pare fermo: alcuni meccanismi si ripetono sempre uguali a se stessi, alcune reazioni intrapsichiche e interpersonali, paiono andare completamente in automatico. In questi momenti così difficili vale veramente la pena provare a scrivere, a disegnare, a dare una forma anche immaginativa ai propri vissuti emotivi. Tale invito può essere sia utile nel facilitare un’attivazione della psiche, per esempio alcuni sogni potrebbero poi risultare “costellati” da tali attività e potrebbero fornire degli spunti utili rispetto a quanto si sta vivendo, sia risultare anche di aiuto nel cambiare il rapporto con la speranza che è presente in analisi. Il momento in cui la persona scrive, racconta una storia, prova a dipingere o a disegnare, facendolo con dedizione, con impegno, con costanza, con coinvolgimento, con onestà psicologica, può rappresentare infatti un momento di incubazione di un’esperienza con una forte valenza trasformativa. Se rileggiamo con attenzione le parole di Havel, possiamo dedurre come la speranza richieda pazienza, coraggio, dedizione, passione, spirito di ricerca per capire qualcosa del mondo e di sé stessi rispetto al mondo. Avere una visione e un senso della propria individualità, afferma Jung, è uno degli ingredienti del benessere e della pienezza psicologica. Considerata da questa prospettiva, la speranza pare così più il risultato di un processo legato al coltivare uno spirito di ricerca e verità che non una condizione a priori della personalità. Essa è sì infatti un’attesa, come l’etimologia “spes” della parola suggerisce, ma è un’attesa attiva molto diversa da uno stare passivamente fermi in attesa che qualcosa accada senza che a noi venga richiesto nulla. E’ un’attesa feconda. Il concentrarsi così tanto sui processi psichici con pazienza, coraggio, passione, dedizione, e animati da una voglia di scoperta, in maniera non dissimile da Havel per certi versi, fa si che spesso si raggiunga un insight terapeutico perché si intravede qualcosa di diverso su di sé. E questo tipo di visione è fortemente terapeutica perché oltre al valore che ha di per sé è anche l’attimo in cui cambia la qualità della speranza: la persona sperimenta la possibilità di vedere sé stessa come speranza senza dover necessariamente attribuire questa fonte di luce a qualcosa o a qualcuno. E quando questo accade si può finalmente avere una fiducia diversa nel futuro, anche se non si sa cosa il domani riserverà, perché la speranza può ormai poggiare su solide basi interiori.
[1] In questo articolo viene citata la storia di Vaclav Havel per illustrare il legame tra speranza e senso, ma tale connubio è rintracciabile in tante biografie di personaggi storici più o meno recenti. Si prenda ad esempio Nelson Mandela, il quale passò ben 27 anni in carcere perché nero e contribuì enormemente a far sì che il Sudafrica, il suo paese, andasse oltre le discriminazioni realizzate dai bianchi nei confronti dei neri attraverso il sistema dell’apartheid. La notte della sua liberazione dal carcere questa grandissima figura si espresse con queste parole: “Ho vagheggiato l’ideale di una società libera e democratica in cui tutti vivano insieme in armonia e con pari opportunità.” Non voleva Mandela, e così fu grazie al suo operato successivo, che si passasse da una dominazione dei bianchi sui neri come era stato sino a quel momento ad una dei neri sui bianchi per vendetta. Questo suo ideale, questa sua visione, che orientò tutte le sue azioni da leader del Sudafrica maturò proprio nel periodo del carcere. Lì intuì che poteva esserci un nuovo modo di poter intendere i rapporti tra bianchi e neri, e ciò costituì per egli un’autentica speranza che qualcosa potesse realmente cambiare nel suo paese. “Ho perso molto, in questi ventisette anni. Mia moglie è stata sottoposta a ogni sorta di pressioni, e non una bella sensazione per un uomo vedere la sua famiglia arrabattarsi senza sicurezze, senza dignità, senza avere con sé il capofamiglia a difenderla. Ma nonostante i momenti difficili in carcere, abbiamo avuto anche l’opportunità di riflettere sui problemi, ed è un’opportunità molto gratificante. E si impara ad abituarsi alle circostanze. In carcere ci sono stati uomini molto buoni, nel senso che capivano il nostro punto di vista e facevano di tutto per cercare di renderci il più possibile felici. E questo ha spazzato via qualunque amarezza” (In “Mandela – Ritratto di un Sognatore” di John Carlin). Queste parole sintetizzano cosa ha significato il carcere per Mandela, e noi in esse possiamo ritrovare il legame tra senso e speranza di cui si parla nell’articolo. Tornando a quest’ultimo, è stato tuttavia scelto Havel come esempio per la sola ragione che egli ha espresso in maniera chiarissima il rapporto tra speranza e senso ed è quindi il personaggio storico che pare prestarsi meglio ai fini divulgativi di questo breve scritto.