La cultura anglosassone riserva il termine late bloomer, che non conosce un corrispondente specifico nella nostra lingua, a quelle persone che raggiungono una certa condizione professionale e di successo in età abbastanza matura. Persone quindi, come suggerisce una traduzione piuttosto letterale dell’espressione, che sbocciano tardi, non così diversamente da quelle piante autunnali, come per esempio le camelie o le zinnie, che fioriscono bene dopo la stagione primaverile-estiva.
Secondo il canone anglosassone, esempi tipici di late bloomers potrebbero essere considerati la scrittrice della saga di Harry Potter, J.K. Rowling, la quale prima di riuscire a trovare un primo editore per il suo celebre personaggio, ormai esasperata dal suo essere madre single disoccupata più che trentenne, era sul punto di mollare tutta la sua attività letteraria; oppure l’attrice Viola Davis che, prima della sua magistrale interpretazione nel film “The Help”, era sostanzialmente una sconosciuta ad un passo dall’abbandonare il suo sogno di essere un’attrice riconosciuta dal grande pubblico. Utilizzata secondo la prospettiva angloamericana, l’espressione “late bloomer” coincide con l’essere un aggettivo: “quella persona è un late bloomer” è a tutti gli effetti un modo di dire che si limita a fotografare una determinata persona. Né più né meno di una neutra descrizione. E ciò dal punto di vista psicologico non è particolarmente utile, perché non aggiunge nulla a quanto già si conosce. Se invece l’espressione “late bloomer” viene pensata non come un modo per aggettivare qualcuno, bensì come una possibile lente per avvicinarsi all’ambito educativo e/o ad alcune persone adulte che paiono sempre sul punto di spiccare il volo senza riuscire mai a farlo del tutto, essa si rivela di grande aiuto sia nell’ambito educativo che in quello della crescita personale più generale.
Per quanto riguarda l’ambito educativo, prendiamo in considerazione quanto in genere accade nelle nostre scuole elementari e medie: in moltissime circostanze viene sottolineato, giustamente, un “rispetto per i tempi del bambino”, che poi, purtroppo, nella realtà operativa quotidiana viene in genere smentito dal modus operandi prevalente nella scuola. Di fatto, come sa qualunque genitore che abbia figli in età scolare, ci sono continue verifiche quasi settimanali che comportano valutazioni di tipo alfa-numerico che mostrano tutta la fatica che incontra la scuola nel coniugare la dimensione del giudizio, che pare quella prevalente, con l’attenzione ai tempi del singolo bambino tanto declamata, ma concretamente poco messa in pratica. Per la banale ragione che la valutazione numerica implica una valutazione collettiva e standardizzata uguale per tutti, mentre l’attenzione ai tempi del bambino richiede necessariamente una valutazione più qualitativa del singolo bambino. In altre parole, se la scuola volesse pragmaticamente rispettare i tempi di maturazione del singolo bambino, dovrebbe in primo luogo sospendere i continui giudizi, per così dire oggettivi, in modo da lasciare il ragazzo tranquillo sia di sperimentare lo studio come forma di piacere, sia per lasciargli il tempo per trovare il metodo di studio che gli si confà di più. Facciamo un piccolo esempio tratto dall’esperienza scolastica: immaginiamo un bambino di 8 anni, che in qualche modo rimane appassionato dallo studio della storia che in quel quadrimestre tratta il paleolitico e il neolitico. Il nostro ipotetico bambino è a tal punto affascinato dai nostri antenati e dalle loro vite che va anche a vedere video su youtube sull’argomento e a cercare altre fonti di informazioni. Poi arriva il momento dell’interrogazione. Cerca di ripetere l’argomento con parole sue e racconta il tutto per come egli l’ha capito ed anche immaginato, ma, nonostante ce la metta tutta, non riesce a prendere un buon voto perché il suo racconto è impreciso e a tratti confuso. Allo stesso tempo altri suoi compagni, valutati secondo un criterio “oggettivo” valido in egual modo per tutti, ottengono un bel dieci perché, sia pur senza avere il suo stesso interesse per la materia, hanno risposto alle domande usando le stesse parole del libro di testo. Hanno cioè studiato a memoria e sono stati premiati ed elogiati.
Come si sentirà il nostro bambino? Cosa avrà imparato? Sentirà, probabilmente, di valere meno degli altri, di non essere capace, e per le volte successive, vista l’importanza spasmodica del voto, si adeguerà a studiare a memoria. Paradossalmente l’insegnante, o forse sarebbe meglio dire la scuola, ha penalizzato il bambino che aveva più interesse per quella materia. Perché? Perché la scuola non ha avuto pazienza, perché naturalmente un bambino che cerca di ripetere l’argomento con un linguaggio proprio impiegherà anni per padroneggiare la materia, e non ha avuto il coraggio di sospendere i giudizi. Per riuscire in ciò, per riuscire cioè a sospendere la dimensione del giudizio, la scuola dovrebbe sposare la prospettiva del late bloomer, ovvero dovrebbe avere una profonda fiducia nel fatto che quel bambino di 8 anni così sgrammaticato e così disorganizzato al momento, ma veramente interessato alla materia, riuscirà, con i giusti suggerimenti, a fiorire nel tempo. Ma ciò purtroppo accade di rado, perché a dominare è la logica del dover ottenere un certo risultato entro quel semestre e una certa, umanissima, frenesia da parte degli insegnanti che fa sì che essi siano intenti a rassicurarsi sul fatto che i loro bambini stiano apprendendo secondo le tappe di sviluppo stabilite da una tabella di marcia ministeriale.
Per quanto concerne il mondo adulto, va detto che la lente “late bloomer” in ambito clinico-terapeutico è davvero utilissima. Non di rado capita di incontrare a studio persone tra i trenta e i quaranta anni che lasciano intravedere un promettente potenziale basato su una certa sensibilità, o su una un’intelligenza viva, o su una spiccata creatività, o su varie di queste qualità insieme, ma che nel complesso appaiono come bloccate. Nel senso che è come se non riuscissero ad esprimersi e/o a trovare la loro strada nella vita. Brevissimo esempio, un 35enne dotato di una buona dose di umanità: una persona con una rara disposizione verso il dialogare, ovvero con una certa propensione all’ascolto, sempre pronto a dare una mano quando serve, capace di godere della natura, amante di libri, film e fotografia, eppure completamente fermo verso il muovere qualunque passo verso l’altro sesso, dal quale è profondamente attratto. Appare, in alcuni momenti, per lo più spazientito e irritato con sé stesso per questo suo atteggiamento rinunciatario, rassegnato in altri. A questo punto un ipotetico osservatore critico del nostro discorso potrebbe obbiettare: “In che modo può mai entrarci la lente del “late bloomer” con tutto ciò. In fin dei conti non potrebbe essere solo questione di trovare la giusta tecnica o strategia per sbloccarsi?” Potremmo rispondere che in ambito psicologico, purtroppo, la soluzione non è mai così semplice, in quanto non siamo macchine. Per questo pare entrarci decisamente l’ottica del “late bloomer”, perché essa permette di inquadrare la difficoltà poco sopra descritta sotto la giusta prospettiva: non è questione di avere dei limiti insuperabili – come potrebbe immaginare il 35enne del nostro esempio – o di trovare la tecnica o la strategia giusta – come potrebbe ipotizzare il nostra fantomatico osservatore critico – quanto di pulire il terreno, in questo caso psichico, da quei fattori che gli impediscono di germogliare compiutamente.
Sigmund Freud sosteneva che il lavoro dello psicoanalista è un lavoro a “togliere” simile a quello di uno scultore: così come quest’ultimo limando con vari colpi la pietra grezza dà luogo all’opera, l’analista contribuendo ad eliminare i fattori di disturbo che paralizzano la persona pone la stessa in condizione di poter venire fuori. Così, tornando sul nostro 35enne, potremmo per esempio cercare di verificare se da qualche parte all’interno della psiche è radicata una qualche inferiorità corporea o culturale o di qualunque tipo verso le donne che gli impedisce di farsi avanti. Oppure potremmo chiederci se vi siano nuclei psichici legati ai temi del rifiuto e dell’abbandono che siano capaci di tenere sotto scacco l’intero agire, naturalmente, in entrambi i casi, sempre con lo scopo di elaborare il tutto e sgomberare il campo psichico su cui cresce la personalità di quella specifica persona. E anche qui, come nel caso della scuola di cui parlavamo in precedenza, è richiesta pazienza e fiducia verso lo sviluppo, qualità che nella visione prospettica del “late bloomer” certamente non mancano. Pazienza e fiducia richieste al terapeuta in primis, e pazienza e fiducia richieste, in maniera diversa, anche alla persona verso sé stessa, perché come ricorda Carl Gustav Jung “la psiche è un’eterna trasformazione” e rischiare di tenerla bloccata e inchiodata sempre allo stesso punto è un qualcosa di troppo severo e ingeneroso verso la persona e verso il potenziale di cui ella è portatrice.
Più in generale, trascurare il proprio potenziale, al di là del più che trentenne del nostro esempio, è un qualcosa che non giova mai a nessuno, e, proprio in considerazione di ciò, appare sempre degno di un’attenzione psicologica. Perché in ultima analisi trascurare il proprio potenziale significa trascurare sé stessi, e talvolta, soprattutto in età via via più adulta, ricordare a sé stessi che in qualche lato della psiche siamo tutti un pochino dei late bloomers è un modo per mettersi sempre in gioco e per tenere viva l’attenzione sulla propria evoluzione personale.