“L’Enciclopedia della Psicoanalisi” redatta da Laplanche e Pontalis, di estrazione culturale freudiana, definisce la proiezione come “un’operazione con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell’altro, persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, dei desideri e perfino degli oggetti, che egli non riconosce in se.” Aggiunge poco più avanti che si “tratta di una difesa molto arcaica”, anche se talvolta presente in “modi di pensare normali come la superstizione” (Laplanche e Pontalis, 1995, pag. 439). Non casualmente Freud ne parla diffusamente in relazione a tre manifestazioni psichiche: la paranoia, la fobia, e la gelosia, tutte condizioni psicologiche nelle quali il tentativo dell’Io di allontanare qualcosa da sé pare discretamente evidente. Seguendo questa chiave interpretativa, possiamo per esempio notare come il geloso tenda ad attribuire i propri desideri di infedeltà al partner; il paranoico a non riconoscere come propri gli impulsi, sovente carichi di aggressività, che percepisce negli altri; e il fobico, concentrandosi concretamente su pericoli esterni, a non “vedere” come la sua fobia possa costituire un’ esternalizzazione di un qualche conflitto interno legato per lo più a vicende pulsionali vissute negativamente.
Nel corpus teorico junghiano la proiezione non viene considerata soltanto un meccanismo di difesa, bensì un qualcosa di più ampio che può agire anche come un processo difensivo dell’Io rispetto a contenuti psichici sentiti come intollerabili dalla coscienza. In “Tipi Psicologici” Jung esprime chiaramente il suo pensiero sul tema: “Proiezione significa il trasferimento di un processo soggettivo in un oggetto. La proiezione è pertanto un processo di dissimilazione, in quanto un contenuto soggettivo viene estraniato dal soggetto e incorporato, per così dire, nell’oggetto. Può trattarsi di contenuti penosi, incompatibili, dei quali il soggetto si disfa mediante la proiezione, quanto di valori positivi che sono inaccessibili al soggetto per un motivo qualsiasi, ad esempio per sottovalutazione di sé. La proiezione si basa sull’identità arcaica di soggetto e oggetto, ma merita il nome di proiezione solo qualora si determini la necessità di dissolvere l’identità con l’oggetto. Questa necessità si determina quando l’identità diviene un elemento di disturbo….Il termine proiezione indica perciò uno stato di identità che è divenuto avvertibile e quindi oggetto di critica” (Jung, Opere Vol. 6, 1977, pag. 489). Come si può rilevare dal passo appena citato, la definizione junghiana concorda solo parzialmente con la visione freudiana, perché, secondo lo studioso svizzero, la proiezione è anche uno strumento psicologico di differenziazione tra se e l’altro. Si pensi per un attimo all’identità arcaica e fusionale che colora l’humus di fondo di alcune relazioni, quali la diade madre-bambino/a dei primi anni di vita, oppure di una coppia di innamorati. Non è chiaro il confine di cosa appartenga a chi. Se si osserva, per esempio, un bambino intorno ai 3-4 anni di età, si ha spesso la sensazione che alcune azioni importanti della sua giornata, tipo il mangiare o le attività legate agli sfinteri, non vengano fatte sempre per se stesso: talvolta mangia o va in bagno per adeguarsi ad un’aspettativa materna che percepisce su di sé, e non perché queste azioni corrispondano ad un’esigenza personale di quel determinato momento. Oppure un innamorato/a potrebbe avere desideri, aspettative, bisogni attivati dalla relazione, che immagina ben solidi anche nell’altro, ma che potrebbero non trovare corrispondenza nell’altro reale. Nel momento in cui sorge il dubbio che l’altro sia diverso da se, che ha bisogni propri, che è diverso almeno in parte da come lo immaginiamo, acquisisce senso parlare di proiezione, perché, esprimendoci in termini psicologici, si può affermare che qualcosa di personale è stato visto nell’altro. Da questo punto di vista, la proiezione permette di conoscere, di comprendere, di approfondire. Non a caso, nei Seminari su Nietzsche, Jung sostiene che la “proiezione dovrebbe essere considerata un organo cognitivo di conoscenza.”
Sviluppando pienamente, con il corso degli anni, la sua intuizione sulla proiezione come strumento conoscitivo, Jung si rese conto di come la psiche avesse in se delle capacita auto-curative in potenza che tendono a rendersi manifeste per mezzo di proiezioni, a loro volta “aiutate” da ganci psichici che ne permettono l’espressione. Ganci interpersonali e ganci intrapsichici. Da questo punto di vista, la proiezione diventa il motore, per usare le parole di Claudio Widmann, di un “processo costruttivo” . Facciamo un paio di esempi che possano aiutare a capire meglio la natura del processo proiettivo. La relazione analitica tra analizzando e analista può essere considerata un gancio interpersonale capace di attivare dei contenuti psicologici in status nascendi perché, come facilmente possiamo immaginare, si cerca questa particolare relazione in un momento di difficoltà esistenziale. Chi ha una certa esperienza analitica, sa che nelle fasi iniziali di un percorso terapeutico si assiste spesso al fenomeno per cui il paziente vede nel terapeuta determinati aspetti che sintetizzano qualità che necessitano di essere sviluppate, nel corso del tempo, dal paziente stesso. Quest’ultimo potrebbe per esempio avere un’immagine del proprio analista dalla quale spiccano calma e riflessività, ed elaborare progressivamente l’idea che taluni aspetti sia proprio ciò di cui ha bisogno in determinate situazioni. E’ come se tali contenuti fossero trasferiti, ovvero proiettati sulla situazione analitica, e dovessero essere resi coscienti e integrati nella propria personalità. Ovviamente si potrebbe obiettare, anche con valide argomentazioni, che l’altro certe qualità le possiede realmente, e proprio in virtù di ciò è sempre importante porsi la questione in ambito terapeutico del come e quando “ritirare” le proiezioni, ma in un articolo così breve preferiamo tralasciare un argomento che richiederebbe un approfondimento ampio e a se stante. Un utilissimo gancio intrapsichico è costituito dal sogno, perché in questo caso le proiezioni usano moltissimo immagini ad personam per rendersi visibili. Durante qualunque giornata il sognatore, non diversamente da ogni altra persona, è sottoposto a migliaia di immagini visive che di notte il sogno tende a “selezionare” accuratamente, per poi tuttavia deformarle in maniera utile rispetto al cercare di veicolare i contenuti insiti nelle proiezioni. Molte volte un sogno si serve di immagini di persone, di animali, o di paesaggi familiari per il sognatore, ma le presenta con qualche particolare diverso: le persone potrebbero essere più grandi, più piccole, con capelli diversi, con un atteggiamento sconosciuto nella realtà, e via dicendo; gli animali potrebbero parlare e i paesaggi potrebbero avere mille elementi di fantasia. Il fine del sogno, in numerosissime di queste occasioni, è quello di aiutare il sognatore a riflettere su di sé: determinati aspetti delle immagini vengono “cambiati” proprio per far si che il sognatore possa chiedersi se uno specifico elemento della rappresentazione onirica, incarnato da una certa figura, possa richiamare qualche aspetto, positivo o negativo che sia, del sognatore. Per esempio, la presenza di un animale parlante in un sogno può indurre il sognatore a domandarsi se la sua psicologia riflette in qualche misura qualche caratteristica dell’animale antropomorfizzato incontrato nel sogno. In breve, si può dire che i contenuti inconsci si proiettano nel sogno, utilizzando quest’ultimo come una sorta di teatro interiore che funge da specchio per la coscienza del sognatore.
Come si può notare, in entrambi i casi, sia che le proiezioni si servano di ganci interpersonali, sia che si appoggino a ganci intrapsichici, un ruolo assolutamente centrale rispetto alla naturale dinamica del processo proiettivo è svolto dalle immagini. In assenza di immagini, con tutte le loro peculiarità e il loro essere dense affettivamente, non potremmo, probabilmente, nemmeno parlare di proiezioni. Perché le immagini psichiche fungono da ponte rispetto alla possibilità di un ampliamento della propria consapevolezza, e se le proiezioni passano in primo luogo attraverso di esse, comprendiamo meglio quando Jung afferma che “è anzitutto nella proiezione che l’inconscio normalmente si manifesta” (Jung, Opere Vol. 16, 1981, pag. 198). Ciò implica il considerare le proiezioni uno strumento psichico ben più vasto rispetto al ritenerlo un meccanismo di difesa, perché esse offrono quel campo esperienziale di cui la psiche inconscia necessita per cercare di stabilire un contatto con la coscienza, quel campo psichico che può permettere a dei contenuti in potenza di divenire parte cosciente dell’attualità.