In uno dei suoi scritti più noti e conosciuti, “Il Codice dell’Anima”, James Hillman si domanda se può esistere una mediocrità dell’anima. Risponde di no a tale questione, e nel farlo ricorda a tutti noi, a dire il vero anche in maniera piuttosto persuasiva, che i due termini “mediocrità” e “anima” provengono da territori diversi. “Mediocrità” e “mediocre”, scevri dalle connotazioni di giudizio che spesso accompagnano queste due parole, indicano etimologicamente qualcosa che è nella media e ci conducono nell’ambito della statistica sociologica; mentre “anima” è quanto di più singolare e specifico possa esserci in un individuo. Basti anche pensare ai tanti aggettivi che possono accompagnare il termine “anima”: potremmo definirla saggia, vecchia, nobile, ferita, bella, indurita, ingenua, povera, semplice, ma non mediocre o con delle qualità che rimandano alla media.
Riprendendo copiosamente il pensiero di Jung e dei classici greci in proposito, Hillman paragona l’anima ad una ghianda: come ogni ghianda da vita ad una quercia diversa, ogni anima viene al mondo con un suo daimon che da luogo ad uno sviluppo individuativo personale e unico. E nella vita, e per estensione in terapia, è sempre necessario confrontarsi con questo corredo con cui si viene al mondo.
E’ veramente difficile non essere d’accordo con le argomentazioni avanzate da Hillman, eppure tali osservazioni spesso non trovano riscontro in ambito clinico. Molti pazienti tra i 40 e i 50 anni arrivano in terapia con un atteggiamento che per alcuni versi potremmo definire, più che unico e individuale, imitativo. Vestono in una maniera giovanile, passano molto tempo a “giocare” sui social, paiono alla moda, hanno un lavoro, una famiglia, insomma sembrerebbero felici, eppure vengono in analisi perché sentono di incidere poco sulla loro vita, come se stessero più che altro scivolando su di essa senza viverla del tutto. In poche parole, si percepiscono mediocri e non perché debbano essere eccezionali o avere qualcosa di eccezionale, anche nel senso narcisistico del termine, ma semplicemente perché sentono che stanno vivendo come un individuo “medio”, come qualcuno che è soltanto una pedina di una massa indistinta. Molti si ritengono addirittura più consumatori che cittadini. E ciò blocca e confina in una forma di mediocrità legata al sentire che è come se non ci fosse più nulla da dire e più nulla da ricevere dalla vita. Una mediocrità, in sostanza, legata al percepire una sterilità esistenziale.
In termini hillmaniani si potrebbe obiettare che tutto ciò, fonte di vissuti angoscianti, è legato alla tendenza ad ascoltare poco il proprio daimon. Certamente tale obiezione conterebbe del vero, e come di sfuggita notavamo poco sopra la terapia del profondo per sua natura favorisce l’ascolto del proprio mondo interno, tuttavia questo scivolare pare così diffuso nella società che non possiamo esimerci né dal chiederci perché ciò avvenga, né dall’inquadrare il tutto in termini di psicologia collettiva.
Myguel Benasayag e Gérard Schmit (2004) sostengono che viviamo nell’epoca delle “passioni tristi.” Questi due studiosi, i quali lavorano principalmente con adolescenti e giovani adulti, ritengono che nel contesto occidentale il futuro si sia trasformato da promessa di un divenire in qualcosa di minaccioso. La società nel suo complesso, oltre ad aver smarrito sia una fede religiosa che laica, non offre particolari prospettive economiche e, date queste condizioni, i ragazzi si crogiolano in un eterno presente volto a soddisfare impulsi e desideri che conducono ad una certa autoreferenzialità. L’osservazione clinica suggerisce che tale assenza di futuro legata apparentemente a prospettive economiche sia presente anche in persone più adulte, le quali forse proprio a causa di quest’assenza entrano progressivamente in una condizione di un esserci e non esserci, di uno starci e non starci, in una sorta di sospensione esistenziale che non è facile descrivere a parole.
Ma è davvero solo questione di prospettive economiche ? O in qualche modo, almeno limitandoci alle persone più adulte, ha un certo peso l’abito mentale con il quale vengono esperite le prospettive economiche e il denaro ?
In un bel saggio intitolato “Il Mito del Denaro”, Claudio Widmann dimostra con precisione quasi chirurgica che non è affatto errato definire l’uomo moderno homo oeconomicus [1], al punto tale che il denaro costituisce un complesso autonomo nella psiche. Ovverosia un fattore che agisce automaticamente come elemento motivazionale a livello psichico e comportamentale. Si potrebbe obiettare che bisognerà pur mangiare, e ciò è indubbiamente vero. Tuttavia, se consideriamo che le persone [2] di cui parliamo in questo articolo hanno spesso una soddisfacente posizione occupazionale, non possiamo non notare come il denaro psicologicamente non sia più un qualcosa soltanto di necessario per vivere, bensì pare essere un valore di per sé nella vita. Perché fornisce un senso di sicurezza, talvolta di onnipotenza, e trasmette l’idea di valere perché molte volte si finisce con il ritenere che valiamo per quello che abbiamo e non per quello che siamo. E’ un qualcosa su cui proiettiamo il nostro valore, che funziona come uno specchio identitario. Il denaro diventa così misura.
In altre parole, siamo dominati da un paradigma economico, misuriamo quanto fatto nella vita, e quanto si può fare in termini esclusivamente numerici e di risultati. Siamo, o rischiamo di essere, dei moderni Re Mida, nel senso che vorremmo trasformare tutto in oro, solo che forse non ci rendiamo profondamente conto di come poi tutto ciò possa rivelarsi soffocante e limitante perché un qualcosa che dovrebbe essere al servizio del tutto, è diventato tutto. Così come Mida si dispera nel momento in cui capisce che non può più realmente né bere né mangiare perché appena tocca qualcosa quest’ultima si tramuta in oro, trasformando tutto in termini di efficacia e di efficienza noi corriamo il rischio di non riuscire più a bere alla fontana della vita. Qualunque idea, qualunque progetto, ha valore se viene tradotto in numeri, in efficienza, in un prodotto finito. Così, un paziente non va a camminare perché farlo, in assenza di una ragione di salute, sarebbe “una perdita di tempo”; un altro non inizia un corso di arte perché i “quadri non si vendono”. Piano piano è come se i sentimenti si inaridissero, come se essi non avessero valore e potessero essere etichettati come non necessari. Lentamente si inizia a perdere motivazione, a fare le cose per forza di inerzia e per dovere, anche per la semplice ragione che spesso oltre certi numeri non si può andare. E’ stato fatto quello che si poteva fare. E’ così si inizia a scivolare.
E allora possiamo tornare ad Hillman e ad una sua grande lezione: se non riflettiamo sulle nostre idee di fondo ne siamo posseduti. Scrive in “Il Potere”: “La civiltà odierna è tenuta insieme non dall’idea di bellezza, di verità, di giustizia, o di destino, non da una forza basata sulla pax romana, non da leggi, divinità o lingua comuni, o dalle fedi condivise. Soltanto le idee del business sono realmente universali”, ed aggiunge poco più avanti che: “le idee che possediamo senza sapere di averle, possiedono da noi” (Hillman, 2002, pag. 17). Da questa angolazione, questo sentirsi mediocri, medi, diviene una spia della necessità di riflettere su cosa è realmente importante per noi, su cosa ci anima e ci rende vitali.
Ne “Gli Stadi della Vita” (1931) Jung sostiene che mentre la prima parte della vita è fatta per costruire, per realizzare obiettivi sanamente egoici, la seconda è legata al cercare di realizzare un senso di completezza legato al vivere le varie sfaccettature della personalità. In termini maggiormente concreti, vuol per esempio dire coltivare la controparte psichica, il maschile nella donna e il femminile nell’uomo, presente in ogni essere umano. Così, se nella prima parte della vita per un uomo è sufficiente essere maschile e per una donna femminile, nella parte più avanzata della vita è come se ciò non fosse più sufficiente. Si ha bisogno anche di altro, di un senso di maggiore completezza.
La mediocrità e l’assenza di prospettive future in molti adulti sono così forse un indice della necessità di coltivare un atteggiamento psichico diverso per affrontare l’altra metà del percorso se non si vuol scivolare su questo secondo tratto dell’esistenza. Un atteggiamento nuovo, per certi versi faticoso perché costringe a mettersi in gioco, capace tuttavia di non svalutare quella tendenza dell’essere umano ad aspirare verso un senso di maggiore completezza psicologica. Senso di completezza che costituisce forse un antidoto psichico per il senso di mediocrità che accompagna spesso la vita adulta, perché permette di evitare, come dice Jung, che “la verità del mattino si trasformi nell’errore della sera”.
[1] Per esempio, è stato calcolato che i milionari apparsi sulla terra dall’inizio dei tempi siano stati meno di quelli contemporaneamente presenti nell’epoca attuale.
[2] Diverso il discorso per le persone più giovani, le quali in effetti devono per lo più ancora costruirsi una posizione lavorativa e di carriera. Per i più giovani, in misura certamente ben maggiore che per gli adulti, il denaro, anziché coinvolgere altri elementi psichici di cui si parla nel testo, costituisce una realtà materiale e concreta con cui confrontarsi.