L’enciclopedia Treccani definisce lo stupore come una “forte sensazione di meraviglia e sorpresa, tale da togliere quasi la capacità di parlare e di agire”. Esso ha a che fare con la curiosità, con il restare a bocca aperta, con l’incanto dovuto al trovarsi davanti a qualcosa di più grande.
Per cogliere in maniera intuitiva cosa sia lo stupore è sufficiente osservare il quotidiano di un bambino piccolo: gatti che camminano come equilibristi su delle ringhiere; alberi da cui spuntano frutti; funzionamento inspiegabile di giocattoli; scatole vuote, come televisori, da cui escono suoni e immagini che ammaliano; telefonini parlanti; genitori che sembrano capaci di aggiustare e sistemare tutto; e via dicendo; sono tutte fonti di intenso stupore per il bambino che deduciamo dal suo sguardo curioso, attento, partecipe, divertito, gioioso, rapito, estasiato, che caratterizza il suo rapporto con l’ambiente circostante. Un modo di vedere che ci fa capire come per egli/ella il mondo stesso sia fonte di stupore, poiché tutto si rivela fondamento di piacevoli e sorprendenti scoperte e momento di origine di nuove personali conoscenze.
Per un bambino è semplice stupirsi, tutto sommato non deve far altro che essere sé stesso, perché sarà la sua stessa condizione esistenziale di principiante dinanzi al mondo a condurlo verso continui vissuti di stupore; mentre per l’adulto, che da tempo ha lasciato questa condizione di novizio del mondo, è più complicato provare stupore. In fin dei conti l’adulto ha già visto e conosciuto tanti aspetti della realtà, di conseguenza il suo mondo ha perso quell’aura di magia che caratterizza il mondo dell’infanzia. In altre parole, per il bambino ciò che ordinario e ciò che è straordinario non sono affatto così separati e disgiunti, mentre per l’adulto le due sfere – l’ordinario e lo straordinario – sono ben distinte. In termini maggiormente pratici, ciò vuol dire che mentre per il bambino, come abbiamo visto, ogni cosa è fonte di stupore, per l’adulto lo è per lo più solo un qualcosa di fuori dal comune come il sostare in silenzio davanti ad una grande opera d’arte, o l’assistere ai primi passi di un bambino, o il trovarsi al cospetto di cime montuose rocciose, o davanti al rossore di un ampio tramonto, o dinanzi alla potenza di una cascata, ect… Per l’adulto, tuttavia, provare stupore solo dinanzi a ciò che è straordinario significa amputare di qualcosa la sua vita.
Diverse ricerche psicologiche, in particolare quelle condotte dall’Università di Berkeley in California, replicate poi in altri paesi, hanno dimostrato gli importanti effetti benefici del provare stupore: questo vissuto calma il sistema nervoso riducendo il battito cardiaco, regolarizzando il respiro, facendo rilassare la muscolatura, facilitando una chiarificazione dei pensieri. In parole sintetiche, il provare stupore riduce il livello di stress.
Da quanto detto sino ad ora ne consegue che dovremmo trovare dei modi che facilitino l’adulto nell’allenare la sua capacità di esperire stupore. Naturalmente dedicarsi con costanza e regolarità all’arte e alla natura aiuta da questo punto di vista, ma, essendo noi psicologi-psicoterapeuti, non possiamo esimerci dal chiederci se la psicologia e la psicoterapia possano fare qualcosa per aiutare l’uomo a ritrovare questa benefica capacità di stupirsi.
La psicologia e la psicoterapia paiono poter far qualcosa rispetto alla possibilità di stupirsi con maggiore facilita, e tale possibilità pare legata al modo di vedere e al lavoro con i sogni. Ma procediamo con ordine e gradualità. Noi viviamo in una società in cui siamo sommersi da stimoli e immagini: sui media, sui social, in ambito pubblicitario, e via dicendo. E’ stato calcolato, sempre dalla già citata Università della California, che l’individuo medio è sottoposto a circa 40 gigabyte di contenuti ogni giorno e che l’attenzione media su ogni stimolo è di circa 8 secondi. Ciò significa, paradossalmente, che non vediamo, al più passiamo distrattamente da uno stimolo all’altro senza che cada una vera attenzione e partecipazione emotiva su quanto si guarda. Si tratta di un guardare distratto, vedere è un’altra cosa. Vedere implica fermarsi, avvicinarsi e allontanarsi per osservare da distanze diverse. Vedere, paradossalmente, vuol dire anche saper chiudere gli occhi per far risuonare dentro di sé quanto si è appena visto. Talvolta questo è esattamente quello che accade quando si vede un’opera d’arte: ci si ferma davanti ad essa per farla risuonare dentro di sé. Il più delle volte questo è anche quello che accade nel lavoro con i sogni in ambito analitico. Per stupirci, va da sé, che dobbiamo recuperare la capacità di vedere.
Un sogno è fatto di parole e suoni, ma è in primo luogo una sequenza di immagini. Queste immagini possiamo farle scorrere e lasciarle andare via senza attribuirle significato alcuno, oppure possiamo provare a vederle meglio per estrarvi qualcosa per conoscere e per conoscerci. Per questo è fondamentale raccontare un sogno e starci dentro. Il tutto – ha sempre sottolineato Carl Gustav Jung – va fatto sempre con il dovuto rispetto per le immagini, ovvero avvicinandosi ad esse senza volerle necessariamente ridurre a delle categorie interpretative stabilite a priori. Non si può partire, nell’ottica junghiana, dall’idea che i sogni siano in ogni caso un appagamento di desideri infantili rimossi, o dal presupposto che essi mascherino sempre qualche elemento sessuale, perché così facendo si vedrà in essi quel che si vuol vedere. Per Jung agire in tal modo significa tradire il sogno, non lasciargli veramente lo spazio e la possibilità di dire la sua sulla situazione psichica del sognatore. Per Jung, infatti, il sogno è un prodotto naturale della psiche che cerca di ampliare e compensare il punto di vista cosciente del sognatore per far sì che egli raggiunga il suo migliore equilibrio psichico in quel dato momento. Il sogno, per il maestro svizzero, parla dunque di un qualcosa che non conosciamo, di ignoto, ragione per cui risulta talvolta irritante e di non facile comprensione. Ogni volta è un pochino una “sfida”, un qualcosa di piuttosto lontano dall’essere facilmente ridotto ad un “è solo questo…”. Ha scritto in “Considerazioni generali sulla psicologia del sogno” che il sogno è “un’autorappresentazione spontanea della situazione attuale dell’inconscio espressa in forma simbolica”, e il simbolo, ha affermato più e più volte in altri saggi, non è altro “che la migliore espressione possibile in un determinato momento della vita di una persona o di un popolo”. Per Jung, dunque, il simbolo è qualcosa di vivo, di ricco di significato, non un segno semeiotico. Un brevissimo esempio. Una persona, come spesso capita nella realtà, sogna un animale: un’interpretazione segnica direbbe in maniera un pochino sbrigativa che l’animale ha a che fare con l’istinto; un’interpretazione più simbolica alla Jung si chiederebbe almeno perché proprio quell’animale e non un altro, e cosa c’entra mai quello specifico animale con quello specifico sognatore. Sognare un serpente o sognare una lucertola, seguendo una visione simbolica e non segnica, non è equivalente per il solo fatto che sono entrambi rettili a sangue freddo in grado di strisciare: se il sogno ha deciso di ricorrere ad una lucertola e non ad un serpente – direbbe Jung – deve esserci qualche ragione particolare che magari sfugge, ma che, se dovesse essere compresa, potrebbe ampliare di molto la consapevolezza di sé del sognatore.
Ci si chiederà: “Si, ok, tutto interessante, ma cosa c’entra tutto questo discorso con il vedere in relazione allo stupore di cui si parlava poc’anzi?” C’entra eccome, perché la prospettiva simbolica junghiana sul sogno insegna a vedere. Obbliga, tornando sul nostro esempio, a chiedersi: “Perché proprio una lucertola? Come può mai entrarci me una lucertola e/o con la situazione che sto vivendo?” E queste domande, spesso senza risposta immediata, costringono a stare fermi, a restare in maniera autentica e impegnata a contatto con l’immagine del sogno fino a quando non si vede nascere in sé qualche idea nuova e originale che cambia qualche prospettiva sulla propria situazione. Vedere, come suggerisce anche l’etimologia del verbo “videre” che a sua volta contiene in sé “id” da cui deriva la parola idea, implica conoscere e comprendere. E nel momento in cui si tenta di vedere per conoscere e comprendere, si torna, ad un livello diverso rispetto a quando si era anagraficamente infanti, anche un po’ bambini, poiché non si può non riconoscere, grazie anche al lavoro sui sogni che ci inchiodano al nostro non sapere, la propria condizione di principianti anche da adulti. Condizione che fa poi sì che anche il mondo adulto torni ad essere fonte di stupore con più ordinarietà.