Chiunque abbia avuto dei figli piccoli ricorderà come intorno ai due-tre anni il proprio bambino abbia iniziato, con una fierezza e una determinazione fino ad allora sconosciuta, a dire dei “no”. Molti genitori avranno altresì memoria di come in quel periodo, dinanzi a “no” tanto fermi e netti del loro bambino, non potessero fare a meno di chiedersi continuamente dove essi sbagliassero. Ma il punto centrale non era, così come non lo è per i genitori di oggi, quello: non è questione, almeno il più delle volte, di individuare la presenza di chissà quali errori genitoriali, quanto di mettere in conto che il “no” dei bambini di ieri e di oggi costituiva e costituisce una fisiologica e necessaria tappa evolutiva dello sviluppo. Perché il “no” pone una differenza, fa capire che al bambino egli è una persona con una sua volontà e con desideri che non necessariamente coincidono con quelli di chi se ne prende cura. Il “no”, in parole sintetiche, aiuta il bambino a cogliere che egli non è solo una copia dei genitori.
Questa fondamentale tappa di crescita che passa attraverso il “no” e che implica la possibilità di differenziarsi dagli altri, in genere può ripresentarsi, ad un livello diverso, in adolescenza. L’adolescente, a ben vedere, si trova infatti davanti ad una sfida analoga a quella dell’infante, non però non in relazione ai genitori come per il bambino, bensì in rapporto al gruppo dei pari. Quest’ultimo, solitamente, esercita una pressione fortissima ad uniformarsi: se si vuol far parte di un gruppo, esigenza molto radicata in quel periodo, è come se bisognasse accettare le regole non scritte dello stesso. Bisogna condividerne il linguaggio, l’abbigliamento, i modi di fare, le scelte di studio o di altro tipo, e via dicendo. Non a caso, non di rado, gli adolescenti trasmettono un pochino l’impressione di essere tutti uguali.
Dire di “no” al suo gruppo per un adolescente è forse la cosa più difficile da fare, perché lo espone al rischio di esclusione, del rimanere solo. Eppure, quando riesce a farlo pone sia le basi per capire cosa gli interessa e cosa no, sia, di conseguenza, getta le fondamenta per le sue scelte future. Coglie, probabilmente per la prima volta in vita sua ad un livello veramente profondo, il suo essere un individuo, anche se al contempo parte di un gruppo, con una sua specifica soggettività diversa da quella di tutte le altre persone. Il “no”, in altre parole, lo aiuta rispetto al divenire maggiormente consapevole della propria identità.
Tutto ciò dimostra l’importanza davvero vitale del “no” nei primi 20 anni di vita di una persona, tuttavia al contempo, limitarne l’importanza solo ai primi decenni, sarebbe un non coglierne la portata psicologica più generale. Anche se un adulto non si trova certamente né nelle condizioni di un adolescente, né tantomeno in quelle di un bambino, nulla toglie che anche per egli sia importante conservare la capacità di dire “no”. Il saper dire di “no” è alla prova dei fatti un qualcosa che si rivela, come vedremo meglio a breve, fondamentale anche nell’età adulta, nonostante l’adulto disponga, a differenza di un adolescente o di un bambino, già di un’identità più definita. Per l’adulto infatti non è tanto questione di trovare un’identità, quanto di far sì che la stessa possa tirare fuori tutte le sue potenzialità. Per esempio, in tante occasioni si subiscono proposte lavorative dequalificanti, al limite dell’umiliante rispetto alle proprie competenze. Oppure, sempre per restare su degli esempi concreti, possiamo immaginare una donna con una sua famiglia e con un lavoro che le piace moltissimo a cui, considerato che i figli non sono più bambini ma adolescenti, può finalmente dedicare più attenzione e spazio. La stessa donna, però, ha anche genitori anziani e dei fratelli, e con il tempo viene invitata esplicitamente e implicitamente da tutti ad occuparsi sempre di più dei suoi genitori: deve cucinare per loro, seguire le magagne di una casa ormai vecchia, portarli in giro per ospedali e visite mediche, e via dicendo. Lo fa anche con piacere, ma il nodo è dato dal fatto che i suoi fratelli invece, in quanto uomini, si sentono autorizzati dalla loro stessa intrinseca condizione ad essere quasi del tutto esonerati dal compito dell’assistenza, così il tutto ricade solo su di lei. Loro, i fratelli, possono vivere senza problemi in un’altra città, oppure essere concentrati sulla carriera, la figlia femmina no. Lei è come se dovesse essere il bastone della vecchiaia dei genitori perché è sempre stato così, perché in famiglia tutti ritengono che “ciò sia nella natura delle cose, perché esse semplicemente funzionano così.” In questi casi riuscire a trovare la forza e il coraggio per dire “no” sarebbe assolutamente basilare, perché potrebbe permettere di uscire da una condizione di sopravvivenza per avvicinarsi ad un vivere più pienamente la propria individualità. Sarebbero dei “no” costruttivi e non dei “no” distruttivi semplicemente fini a sé stessi. Sarebbero dei “no” provenienti da persone che sono già mature e responsabili, forse addirittura fin troppo mature e responsabili.
Ma dire di “no” non è mai facile, perché il “no” fa paura. Si potrebbe avere paura di perdere il lavoro nel nostro primo esempio, e magari non ce lo si può permettere; si potrebbe avere paura sia di essere additata come “egoista”, “isterica”, “infantile”, ect…, sia di essere colpevolizzata pesantemente nel nostro secondo esempio. Nei Seminari su Nietzsche, Carl Gustav Jung osserva che il “no” può spezzare degli equilibri consolidati, può generare conflitto, può far sentire soli. Non a caso – continua il suo ragionamento il maestro svizzero – sono stati i grandi della storia a pronunciare dei “no” solenni e a creare qualcosa di nuovo, ad aprire la strada a nuovi valori, e a tal proposito basti pensare, a prescindere dal fatto se si sia credenti o meno, alla figura di Gesù. Si capisce quindi come il “no”, anche in situazioni personali e non di carattere storico, spaventi molto, perché è come se esso richiedesse, per quella specifica persona che devo tirarlo fuori, uno sforzo dal sapore quasi eroico.
Sembrerebbe un’impresa quasi impossibile, invece c’è un aspetto che non va trascurato e fa ben sperare. Nei periodi in cui ci si trova in una posizione eroica, sappiamo dall’esperienza clinica, che la psiche non lascia la persona sola, perché essa si attiva. Nelle fiabe tale processo di attivazione si vede molto bene: l’eroe o l’eroina partono solitamente per un viaggio difficile, ma grazie alla loro autenticità, alla loro onesta psichica-morale e intellettuale, incontrano poi nei momenti di maggiore difficoltà degli alleati preziosi, come il vecchio saggio che sa dare il giusto consiglio, o l’animale soccorrevole, o un amico fidato. Come a dire che nei momenti cruciali o arriva una fulminante intuizione, incarnata dal vecchio delle fiabe, o un istinto animalesco che è proprio quello che serve in un dato momento critico, o un amico fidato che compensa le nostre lacune. La psiche, come dicevamo poc’anzi, non lascia soli. Si potrebbe obbiettare che si tratta solo di fiabe, ma non si può non considerare che le fiabe sono state partorite dalla psiche dell’uomo in tutte le latitudini del globo, e questo vorrà pur dire qualcosa sul modo in cui essa funziona. Inoltre, quest’attivazione della psiche nei momenti la si vede anche con il cinema che, a differenza delle fiabe, si concentra su storie per così dire più realistiche, ma non per questo meno eroiche. Per esempio, un film di Kean Loach, “Il mio amico Erich”, da questo punto di vista è un capolavoro. Il film in questione è ambientato a Manchester. Erich è un postino 50enne in grossa difficoltà: è stato lasciato dalla seconda compagna e a casa è rimasto con i due figli di quest’ultima, i quali, in particolare il più grande, si trovano in cattive acque. Inoltre, ad aggiungersi a questa già complicata situazione familiare, sopraggiunge per Erich l’evenienza di venirsi a ritrovare in contatto, per una serie di ragioni, con la prima ex moglie di cui è da sempre innamorato, ma dinanzi alla quale non può mai fare a meno di sciogliersi come neve al sole. Ebbene, in un momento di profonda difficoltà in cui tutto gli sta scivolando di mano, egli volge il suo sguardo dentro di sé, ed improvvisamente gli appare, nel senso che è solo lui Erich a vederlo, Erich Cantona, un ex calciatore del Manchester United di cui Erich il postino è tifoso sfegatato. Cantona, più propenso al rischio di Erich, attraverso un dialogo/confronto serrato lo aiuta a trovare soluzioni creative, e a cui in precedenza non aveva pensato, per affrontare una serie di situazioni esistenziali che lo stavano schiacciando. E per non essere schiacciato, ciò si vede benissimo nel film, deve dire dei “no” ad alta voce che si riferiscono non solo a delle situazioni esterne, ma anche ad alcuni suoi atteggiamenti. E da lì riuscirà a ritrovare la grinta, il coraggio, la voglia di lottare e di esprimersi per conquistare un’armonia personale e familiare prima sconosciuta.
Uscendo dall’esempio cinematografico, ciò è quanto in genere può accadere a chi, in un momento di crisi, volge il proprio sguardo al suo interno. Si può iniziare a scrivere e a disegnare qualcosa sul come ci si sente, si può immaginare un dialogo con un proprio vissuto emotivo non per fantasticare ma per lasciare la parola alle immagini interiori, si può incontrare qualcuno con cui parlare con franchezza di certe questioni, e si può essere ragionevolmente certi che qualcosa accadrà, nel senso che arriveranno pensieri nuovi, idee nuove, o chissà forse arriverà un sogno che farà vedere sotto una luce diversa questioni dirimenti e attualmente soffocanti. Il tutto, però, tornando sui “no”, pare in qualche modo legato all’essere disposti a pronunciarne e al non dare per assodato che a talune situazioni sia obbligatorio dire sempre e comunque di “si”. Perché qualche volta i “no” motivati e di cuore paiono un qualcosa che la totalità psichica, che non coincide solo con la parte più cosciente della psiche, vive come una forma di rispetto nei suoi riguardi, e forse proprio per questo si attiva tirando fuori risorse e possibilità che, se anche non si sa bene da dove vengano, conferiscono quella freschezza e vitalità psichica che ha il potere di aiutare sia rispetto a questioni specifiche che angustiano, sia la forza per permettere un bagno di rinnovamento di tutta la personalità.