Per Immanuel Kant l’uomo ha un rapporto “ingenuo” con la realtà, nel senso che egli è convinto che quanto percepisce della realtà esterna coincida esattamente con la sua essenza ultima. Detto con un esempio, se una qualunque persona vede un determinato albero con certi colori – per esempio marrone e verde – è portato naturalmente a credere che l’albero sia fatto così; mentre, osserva Kant, il tutto è invece filtrato dalla soggettività dell’essere umano. In parole esemplificative, se l’albero viene percepito in un certo modo è perché l’occhio umano funziona in un certo modo: se fossimo – direbbe Kant – gatti o gufi o altri animali ancora, avremmo una visione dell’albero diversa, fatta di colori diversi perché l’occhio di questi animali opera in maniera diversa dal nostro. Il punto – sostiene il grande filosofo tedesco – è che non possiamo essere certi che la nostra percezione sia quella corretta rispetto a quello degli altri animali, il che ci induce a concludere che noi possiamo fare affermazioni certe solo sul nostro modo di percepire l’albero senza poter dire in assoluto come esso sia realmente fatto. In sintesi, non siamo, secondo Kant, in grado di rispondere alle domande relative al cosa sia la realtà.
Carl Gustav Jung riprende tale questione ad un livello psicologico e distingue, per esempio, tra imago di una persona e persona reale esterna: l’immagine che abbiamo di una persona – un genitore, un/una partner, un amico/ – non necessariamente corrisponde in toto con quello che quella persona è a tutti gli effetti, ma nulla toglie, aggiunge magistralmente lo studioso svizzero, che l’immagine che ne abbiamo susciti specifiche emozioni e dia origine alle nostre azioni. Tale osservazione permette a Jung di oltrepassare la questione posta da Kant su cosa sia la realtà, poiché, anche se non siamo in condizione di poter dire cosa in ultima istanza essa sia, le immagini che abbiamo di quanto ci circonda sono per altri versi del tutto reali in quanto agiscono, ovvero determinano il nostro sentire e il nostro comportamento.
A questo discorso, anche piuttosto complesso se si vuole, Jung aggiunge un altro tassello: proprio perché non sappiamo cosa sia la realtà, dovremmo – sostiene – prestare ancora maggiore attenzione alle immagini psichiche, perché esse sono in molti casi dei tentativi di comprensione della realtà stessa e della relazione che l’uomo può avere con quanto lo circonda. Seguendo questa prospettiva e il pensiero junghiano, potremmo definire le immagini psichiche come dei tentativi simbolici di comprensione della realtà e dell’uomo nel suo mondo, in quanto costituiscono “la migliore espressione possibile di cui si dispone in un determinato momento della vita di una persona o di un popolo” per rappresentare un fenomeno, nel nostro caso la realtà e la relazione uomo-mondo, che non può essere rappresentato in altro modo. In estrema e brutale sintesi, per l’uomo è più semplice e fattibile riuscire a cogliere la realtà e sé stesso in relazione al mondo attraverso le immagini psichiche, anziché con il linguaggio verbale o in altro modo ancora. E’ sempre stato così e lo è ancora.
Basiamoci su un esempio storico, le Grotte di Lascaux. Le Grotte di Lascaux si trovano nella Francia sud-occidentale, nella regione della Dordogna. Sono state scoperte casualmente da un gruppo di ragazzi nel 1940, al suo interno vi sono più di 600 dipinti rupestri risalenti circa al 17.000 -20000 A.C. Si tratta di pitture realizzate dal nostro antenato di Cro-Magnon e raffigurano per lo più animali come cavalli, bisonti, uri, cervi, uccelli e poche figure umane. Alcuni dipinti sono molto realistici, altri meno. L’evenienza che le grotte fossero così nascoste – come testimonia la loro fortuita scoperta piuttosto recente – e che fossero oggetto di tanta attenzione, visti i numerosissimi dipinti, fornisce la “prova” dell’assoluta importanza che doveva rivestire l’attività immaginativa per il nostro antenato. Se pensiamo a quanto dovessero essere difficili le condizioni di vita dell’epoca, tale significatività diviene subito evidente: un uomo impegnato allo stremo delle sue forze per sopravvivere, era anche iper-coinvolto con tutte queste immagini. Perché? Perché era così? Gli studi antropologici più avanzati, per esempio quelli condotti per vari decenni da Clottes e Williams, ipotizzano che non stessero cercando di riprodurre la realtà, quella già la vedevano, bensì che stessero tentando di coglierne qualche essenza. Per esempio, alcuni dipinti basati su una struttura circolare sembrano voler capire il ciclo vitale dell’esistenza e il mistero della morte; altri sembrano legati al voler cogliere quali caratteristiche, anche di atteggiamento psichico, fossero necessarie per sconfiggere alcuni pericolosi animali. In altre parole, stavano cercando attraverso le immagini di penetrare la realtà, quasi come se in un qualche angolo della loro mente fossero presenti le stesse domande di Kant su cosa abbiamo realmente davanti ai nostri occhi quando osserviamo un fenomeno. E naturalmente cercavano di rispondere attraverso le immagini.
Anche nel bambino la comprensione passa attraverso il comprendere per immagini: il linguaggio verbale impiega anni per essere articolato e per divenire uno strumento per farsi capire e per capire il mondo; le immagini psichiche, invece, sono presenti fin dall’inizio. Il papà è un eroe, un dio, un mago, la figura talvolta temuta, mentre la mamma è una fata, una regina, talvolta una strega; in ogni caso tutto ciò lo guida nell’esplorare quel suo mondo che a sua volta lo influenzerà nel formarsi nuove immagini psicologiche a loro volta in grado di facilitarlo nel rivedere e nel riaggiornare le immagini psichiche formatesi in precedenza. Da questo punto di vista, le immagini dei genitori per esempio diventano con il crescere meno mitologiche e più realistiche, ma l’aspetto che qui preme sottolineare è che nulla toglie che siano sempre esse a dirigere la comprensione di sé e del mondo da parte del bambino.
Si dirà: “Va bene, per l’uomo primitivo funzionava così, per il bambino funziona così, ma che attinenza può avere tutto ciò con l’adulto?” In realtà ha molta attinenza. Anche l’adulto comprende l’essenza della realtà attraverso le immagini. Pensiamo per un attimo al sogno, al suo essere uno specchio interno; al suo catturare aspetti ultimi della realtà che altrimenti possono sfuggire. In una bellissima intervista rilasciata nel 1982 a Bollingen, Marie-Louise Von Franz ha raccontato il primo sogno avuto dopo essersi trasferita nel verde e nella natura del piccolo paesino svizzero: tante scimmie allegre e festose intorno alla sua abitazione, che in qualche modo le hanno ricordato e risvegliato in lei “il sentimento di essere un animale tra gli animali”. Sentimento che l’aiutata a farle avere – nonostante l’avesse già in ottima misura – uno sguardo più penetrante su sé stessa e sul mondo. Si potrebbe pensare che l’esperienza della Von Franz sia stata unica o rara, poiché si trattava di un’analista e di una studiosa straordinaria; in realtà – anche se in maniera magari meno intensa – chiunque dedica una costante ai sogni, e sia disposto a lavorarci seriamente sopra, fa talvolta esperienza personale diretta della sensazione del riuscire a cogliere qualcosa di profondo della natura della realtà e della propria relazione individuale con essa. Se si vuole, grazie all’assidua attenzione ai sogni, è come se talvolta si fosse nella condizione psicologica, almeno per qualche breve periodo di tempo, di rispondere alle spinose questioni poste da Kant sulla realtà.
In sintesi, le immagini psichiche – come già detto poco sopra – costituiscono spesso un tentativo per comprendere il mondo; naturalmente cercare di comprendere non significa che si comprenda tutto. E per fortuna è così. Avvicinarsi a comprendere senza farlo mai del tutto può forse essere talvolta frustrante, ma ha l’enorme pregio di rendere umili e, paradossalmente, più vivi, poiché lascia nella condizione psicologica dell’essere votati verso una continua ricerca. E il ricercare senza spegnersi interiormente conferisce quella sana vitalità legata al sentirsi immersi nella realtà e nella vita; in un periodo storico come il nostro dove ci si sente spesso inutili e vuoti ciò non è affatto poco.