Nel periodo seguente la rottura con Freud, Jung, attraversò alcuni anni di malattia creativa, (Ellenberg 1970), da cui riuscì ad emergerne grazie ad un confronto diretto con le immagini dell’inconscio. Le immagini principali della vita di Jung, cioè Elia, Salomè, Filemone, Ka, erano delle personificazioni dell’inconscio successive a sogni che egli stesso dipinse, oppure che scaturirono da fantasie necessarie ad ampliare quanto stava accadendo in quella fase della sua vita. Nel rapportarsi alle personificazioni della sua realtà psichica Jung non fece mai venire meno la posizione della coscienza, che per dirla con le parole dello stesso autore “è capace di intendere le manifestazioni dell’inconscio e di prendere posizione di fronte ad esse” (Jung, 1961, pag. 230) Per Jung questo confronto più diretto con l’inconscio rispetto all’analisi dei sogni era l’unico modo per andare oltre “un periodo di incertezza interiore, anzi di disorientamento” (Jung, 1961, pag. 212), e ciò si può ben cogliere in un altro suo passo: “Finché riuscivo a tradurre le emozioni in immagini e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rassicurato. Se mi fossi fermato alle emozioni, allora forse sarei stato distrutto dai contenuti dell’inconscio” (Jung, 1961, pag. 219).Questo suo metodo di confronto con l’inconscio anni più tardi Jung lo denominò immaginazione attiva. Andando a scorrere l’opera di Jung si può notare come affronti l’argomento immaginazione attiva dal punto di vista teorico già nel 1916 nel suo saggio sulla funzione trascendente, pubblicato con qualche rivisitazione solo nel 1958. In questo lavoro Jung chiama funzione trascendente quella tensione creativa che riesce ad andare oltre la mera contrapposizione tra l’Io e l’inconscio (De Luca Comandini 2002). Nel momento in cui è necessaria la sintesi, l’integrazione della personalità attraverso l’immaginazione attiva è più probabile, in confronto al lavoro con i sogni, perché è maggiore la possibilità che l’Io riesca a porsi attivamente rispetto ai contenuti dell’inconscio. In questo suo primo lavoro sull’immaginazione attiva Jung descrive tutti i punti essenziali del metodo: il ruolo centrale della fantasia nel chiarire l’affetto; il fatto che nella rappresentazione dei contenuti inconsci è possibile utilizzare forme espressive diverse come il disegno, la scultura, la danza, la scrittura; il rischio che l’elaborazione delle fantasie porti verso un eccesso di estetismo o di comprensione soltanto intellettuale del materiale, senza dare ai contenuti emergenti la possibilità di dispiegare i loro effetti trasformativi; il senso attivo dell’atteggiamento psicologico verso l’immagine che può essere sintetizzato da questa affermazione di Jung: “L’Io va sostenuto di fronte all’inconscio come realtà di uguale valore, e viceversa” (Jung, 1916-1958, pag. 103). De Luca Comandini osserva che Jung, dopo questa delineazione dell’immaginazione attiva nel saggio sulla funzione trascendente, ha ripreso l’argomento in numerosi lavori, ma dal punto di vista strettamente terapeutico le considerazioni più importanti è possibile trovarle in Tipi psicologici, nel testo L’Io e l’inconscio, nelle conferenze Tavistock, in Psicologia e alchimia, in Mysterium coniunctionis. Nelle definizioni presenti in Tipi psicologici Jung evidenzia come l’immaginazione attiva costituisca una meta dello sviluppo psicologico, affine “alle più alte attività umane, dove continua il maestro zurighese, “la personalità conscia e inconscia del soggetto confluiscono in un prodotto che è comune ad ambedue e che le unifica” (Jung, 1921, pag. 440). Questo compito di sintesi può essere considerato il più delicato del processo analitico, visto che avviene nel momento conclusivo del percorso terapeutico il quale ha già avuto modo di chiarire l’analisi dell’inconscio. Questa sintesi è il frutto di tutto le parti in campo ed è legata alla produzione di simboli che rappresentano la migliore espressione possibile di un individuo in un determinato momento della sua esistenza. Nel lavoro L’Io e l’inconscio Jung rimarca tre conseguenze fondamentali legate alla partecipazione al processo fantastico: la coscienza è ampliata nei suoi contenuti, viene meno l’influenza dominante dell’inconscio, avviene una modifica della personalità. Nelle conferenze Tavistock del 1935, dove Jung usa proprio il termine immaginazione attiva, il metodo viene posto in relazione all’oggettivizzazione del transfert e della sua risoluzione una volta che la riduzione del transfert del paziente a figure della sua vita non produce ulteriori risultati terapeutici. In Psicologia e alchimia Jung trova un parallelo del suo metodo dell’immaginazione attiva nella imaginatio degli alchimisti. Il punto di contatto tra Jung e gli alchimisti è costituito dal potere trasformativo presente sia nell’immaginazione attiva, con il suo confronto tra l’Io e l’inconscio, sia nella imaginatio dove le rappresentazioni interne degli alchimisti erano collegate alla trasformazione della materia, che dal punto di vista di Jung rappresentava il terreno per le proiezioni del proprio inconscio. In Mysterium coniunctionis Jung considera l’immaginazione attiva come quel mezzo che permette il passaggio da un atteggiamento analitico presente solo all’interno del rapporto terapeutico ad un atteggiamento analitico presente anche nel periodo successivo la fine dell’analisi, grazie al suo riuscire a spostare il baricentro verso l’interno che facilita di fatto il proseguo del processo di individuazione. Ovviamente Jung anche in altri scritti ha fatto riferimento all’immaginazione attiva, basti pensare alla “Psicologia della traslazione” o a “Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche” dove sottolinea di nuovo il valore di sintesi dell’immaginazione attiva, oppure al caso presentato in “Empiria del processo di individuazione” dove mostra l’atteggiamento rispettoso e non intrusivo verso il lavoro con la pittura svolto dalla paziente, ma in quelli precedentemente considerati, visti nel loro insieme, riescono ad esprimere compiutamente il pensiero junghiano sull’immaginazione attiva e costituiscono la base per il lavoro proposto da autori successivi.
Gli sviluppi successivi
Maria-Louise Von Franz nel commentare il lavoro di Jung sull’immaginazione attiva ha proposto, ai fini di una maggiore comprensione del metodo, una suddivisione in 4 passaggi interni: la fase del lasciar accadere, quella dell’immagine gravida, quella dell’entrata in scena, ed infine la trasformazione oltre l’analisi. Per lasciar accadere è necessario “svuotare la propria mente dai processi di pensiero dell’Io” (Jung, 1955-1956, pag. 75), per far si che questa sospensione dell’attività della coscienza possa permettere all’ignoto di manifestarsi. Un’operazione del genere non è per nulla facile per noi occidentali, ma è basilare per “circoscrivere il vuoto in cui l’Altro può entrare” (De Luca Comandini, 2002, pag. 559). La seconda fase, quella dell’immagine gravida, consiste nel saper accogliere l’immagine che emerge dall’inconscio e fissare l’attenzione su di essa.
La Von Franz (1978) ci tiene a chiarire che il tipo di attenzione da riservare al contenuto apparso non deve essere né eccessiva a tal punto da fissare l’immagine, né così poca da permetterle mutamenti troppo rapidi. Bisogna evitare che l’immagine muti a suo piacimento perché, parafrasando Barbara Hannan (1981), l’immagine deve chiarire a sufficienza le ragioni) del suo manifestarsi. L’attenzione della coscienza sul contenuto emergente riesce in qualche modo ad attivarne le potenzialità, questa qualità della coscienza è ben illustrate in questo breve passo di Jung: “Il verbo inglese to look at non rende questo significato, ma l’equivalente tedesco betrachten vuol dire anche ingravidare…Perciò osservare una cosa o concentrarsi su di essa, betrachten, conferisce all’oggetto la qualità dell’essere gravido. E se esso è gravido allora ne deve venir fuori qualcosa; è vivo, produce, si modifica. Ciò accade con qualunque immagine fantastica.” (Jung, pag. 100-101). La terza fase si caratterizza sia per l’obiettivazione della fantasia necessaria per evitare che il tutto sfumi nell’indistinto, sia per l’entrata in scena di chi sta immaginando che non può far a meno di esprimere la sua posizione sulla situazione conflittuale. L’Io non può non esprimere il suo personale punto di vista sulla situazione psichica in atto perché altrimenti sarebbe un semplice spettatore della scena e non uno degli opposti impegnato attivamente in una trasformazione globale della personalità. In mancanza di una partecipazione etica dell’Io l’inconscio potrebbe anche rivelarsi un boomerang per una persona impegnata in un progetto di immaginazione attiva, ma se l’Io si rapporterà onestamente all’inconscio e ne riconoscerà la realtà, quest’ultimo accoglierà l’Io come reale interlocutore. Il dialogo con l’inconscio va portato sino al termine per quanto lungo ed arduo possa essere, ma solo un confronto serrato può aiutare nel costruire una nuova struttura psichica. Il raggiungere una nuova sintesi della personalità non vuol dire essere arrivati alla beatitudine o ad una condizione esistenziale di perfezione perenne, ma implica una trasformazione simbolica dell’atteggiamento di un individuo verso l’esistenza. In proposito è interessante quanto scrive De Luca Comandini: “Con alcune figure nell’arco di un’immaginazione attiva tende a crearsi un rapporto di qualità più profonda….ci sono alcune personificazioni che non vanno lasciate cadere, ma che è bene valorizzare e coltivare nel tempo. In questo genere di rapporti, che guadagnano profondità nel tempo, il confronto etico dell’immaginazione attiva raggiunge il suo stadio più elevato. Molte immagini infatti, in contesti psichici particolari, hanno impatto intenso e fecondo sulla coscienza; ma solo alcune, tenute in relazione con continuità, possono dialogare con l’insieme di un’esistenza e contribuire a comporre il senso di una storia individuale” (De Luca Comandini, 2002, pag. 564). Il parlare di trasformazione simbolica verso la vita ci conduce direttamente alla quarta fase precedentemente citata, la fase relativa al dopo analisi. Per Jung l’immaginazione attiva era un metodo da applicare in solitudine, ciò possiamo ben coglierlo dalla testimonianza diretta di Barbara Hannan: “Quando ero analizzata da Jung, lui voleva sempre sentire se io avessi fatto una immaginazione attiva, ma dopo aver ascoltato attentamente, qualsiasi cosa avessi fatto, non analizzava mai né faceva commenti, eccetto che farmi notare se io l’avessi usata nel modo sbagliato. Dopo di che, sempre, chiedeva i sogni e li analizzava con grande cura” (Hannan, 1981, pag. 13). Il fatto che Jung intervenisse soltanto nel caso in cui l’immaginazione attiva fosse stata usata erroneamente, ci permette di capire come per il maestro zurighese il metodo servisse per rendere la persona indipendente dalla relazione analitica. Questo aspetto per Jung era particolarmente sentito perché trovava fondamentale restituire al paziente la sua proiezione archetipica di trasformazione presente nel transfert. In altre parole l’analista con l’immaginazione attiva “indica una via per continuare il processo trasformativo oltre l’analisi”. (De Luca Comandini, 2002, pag. 567).Abbiamo visto come Jung proponesse ai suoi pazienti di fare l’immaginazione attiva al di fuori dei loro incontri per attivarne la loro responsabilità personale verso l’inconscio e per favorire un’indipendenza dall’analista, pertanto sotto questi aspetti appare importante soffermarsi sulle modifiche tecniche adottate da Annamarie Kroke nell’utilizzo dell’immaginazione attiva.
La Kroke usa l’immaginazione attiva per raggiungere gli stessi obiettivi di Jung, cioè capacità di sintesi personale e autonomia dall’analista, ma preferisce far fare l’immaginazione attiva durante la seduta sia per aiutare il paziente ad “entrare in una vicinanza con la propria dimensione interna”, sia per evitare che il paziente cada “nella ripetizione delle proprie inibizioni complessuali” (Kroke, 2004, pag. 109). In sostanza ritiene che solo in un secondo momento il paziente sarà in grado di fare autonomamente l’immaginazione attiva perché ha prima bisogno di essere guidato nella relazione con l’inconscio. Nell’aiutare il paziente a relazionarsi alle sue immagini emergenti
la Kroke sottolinea principalmente i seguenti aspetti: l’entrare con il corpo nell’immagine una volta che questa si è sviluppata; l’uso di immagini controtransferali per cogliere la modalità relazionale dell’immaginante con il proprio inconscio. L’entrare con il corpo in un’immagine ben nitida e concreta aiuta il paziente a percepire se stesso come parte del suo mondo interno, e ciò, secondo l’esperienza clinica della Kroke, fa si che la persona si comporti come farebbe nella realtà esterna. La presenza corporea aiuta l’immaginante a non vivere l’immaginazione attiva come una esperienza solo intellettuale, proprio perché il corpo è carico di affetti ed emozioni. Il vivere con la dimensione corporea la scena psichica permette una piena partecipazione della coscienza, che di fatto facilita una polarizzazione della situazione interna necessaria per la successiva sintesi. L’analista facilita l’entrare con il corpo sia attraverso domande (cosa vede, cosa sente, la descrizione dello spazio, l’atmosfera, le sensazioni), sia evitando che l’immaginante fugga davanti al contenuto o al contrario che ne rimanga semplicemente estasiato. L’emergere di immagini controtransferali, legate anche ad aspetti personali e ad una serie di cambiamenti fisici sperimentati in seduta, serve alla Kroke per vedere in che modo è riuscita ad accogliere la comunicazione inconscia del paziente. L’immagine che emerge nell’analista, è ritenuta dall’autrice tedesca, un mezzo per orientare la sua attenzione nella funzione di accompagnamento immaginativo.
La Kroke tiene quindi in considerazione la sua immagine valutandola in tutti i suoi aspetti, ma non la fa entrare direttamente nel rapporto con il paziente. Preferisce “sospenderla” per poi immedesimarsi nei contenuti del paziente per favorire la partecipazione di quest’ultimo alla sua scena. Solitamente riferisce l’autrice l’immaginazione attiva volge verso il termine quando emergono gestal globali che sciolgono la tensioni tra gli opposti.Tutto il lavoro della Kroke, fatto nel corso delle sedute con l’immaginazione attiva, è finalizzato a permettere lo strutturarsi del Sé, in modo tale che poi il paziente possa anche procedere da solo nella sua relazione con i contenuti inconsci. Concludendo questa breve tesina vorrei far notare come, al di là delle differenze tra l’impostazione junghiana classica e l’approccio della Kroke, l’immaginazione attiva permette di andare oltre una situazione conflittuale perché implica una concezione dello sguardo che ammette sulla scena psichica una serie di percezioni spesso trascurate. Per Sartre lo sguardo non è legato al dominio degli occhi, perché lo sguardo riesce a cogliere anche la parte cieca del campo visivo. Come osserva
la Gianni “il valore della teoria di Sartre è di aver liberato lo sguardo dall’occhio in quanto organo, aprendo lo spazio per un’analisi della relazioni intersoggettiva immaginaria” (Gianni, 2004, pag. 321).Ovviamente il guardare sottintende anche l’essere guardati dall’altro e dal mondo più in generale. Rimanendo nell’ambito più ristretto dell’immaginazione attiva questa concezione dello sguardo ci permette di dire che il soggetto ha la possibilità di presentarsi a se stesso e di vedersi attraverso lo sguardo dell’altro che costituisce la sua identità. Nell’immaginazione attiva i complessi non sono semplicemente oggetto di analisi, ma divengono soggetti che esprimono un’altra prospettiva, come se si trattasse dello sguardo di un altro. Ed è proprio la trasformazione da oggetto in soggetto che fa entrare l’immaginante in uno spazio simbolico, catalizzatore di quella sintesi della personalità che Jung nel corso del suo lavoro ha sempre sottolineato.