In maniera piuttosto asciutta diversi dizionari definiscono il silenzio semplicemente come assenza di rumore. Se tuttavia ci si sofferma a riflettere sui vari momenti di silenzio esperiti nelle nostre vite, ognuno di noi ha la possibilità di rievocare immediatamente come esso presenti numerose sfaccettature emotive. Potremmo, per esempio, aver vissuto talvolta un silenzio di pace, talvolta uno carico di angoscia, esserci trovati in una situazione silenziosa in cui la tensione poteva essere tagliata con un coltello, un’altra circostanza in cui il silenzio l’abbiamo sentito accogliente, essere stati toccati dal silenzio romantico, altre volte esserci sentiti oggetto di un silenzio ostile capace di erigerci un muro intorno, aver percepito un silenzio di disaccordo oppure di approvazione nei nostri riguardi, e via dicendo. Il silenzio, detto in poche parole, è comunicazione. Non a caso il grande musicista John Cage al termine della sua composizione “4,33” ha voluto che il pubblico osservasse esattamente 4 minuti e 33 secondi di silenzio per riuscire a godere completamente della forza espressiva della sua opera. Bice Garavelli, linguista e accademica della Crusca, nel suo splendido saggio “Silenzi d’Autore”, ci mostra una galleria di silenzi estratti da un’enorme conoscenza letteraria che spazia dai classici greci fino a Carlo Levi, passando per Dante, Ariosto, Leopardi e Manzoni, proprio per far cogliere come il silenzio sia un linguaggio, addirittura per Leopardi il linguaggio di “tutte le forti passioni, dell’amore, dell’ira, della meraviglia, del timore”.
Proprio sfogliando i silenzi che mostra Bice Garavelli, possiamo osservare come il silenzio sia, oltre che una forma espressiva, anche un momento psicologico che talvolta precede la tragedia e la morte, come in Sofocle laddove Giocasta rinuncia a manifestare la sua identità ad Edipo o in Primo Levi dove esso annuncia la solitudine e l’angoscia mortifera di Auschwitz, o in alternativa una fase che anticipa un momento autenticamente creativo, come ne “Le Confessioni” di Sant’Agostino dove esso precede la creazione, o nel Leopardi de “L’Infinito” che attraverso il silenzio riesce a raggiungere un suo nuovo sguardo sul mondo.
In questo breve scritto, vorremmo focalizzarci su quella fase positiva di silenzio che costituisce una premessa della creatività perché essa, basandoci sull’esperienza clinica, sembra essere un’area psichica in cui molte persone non riescono a sostare. Come se il silenzio fosse faticoso e intollerabile. Non è affatto inusuale ascoltare a studio il racconto di pazienti che devono necessariamente sentire dei rumori, che vanno dalla Tv allo stereo fino ad arrivare al preferire il caos del traffico al silenzio, quando sono soli. Come se talvolta fossero spaventati dai propri pensieri o da quanto può emergere. Probabilmente Aristotele aveva buone ragioni nel sostenere che l’uomo teme l’horror vacui, cioè per natura rifugge il vuoto, e di per sé è portato a riempirlo attraverso le azioni più svariate, anche perché, possiamo sostenere oggigiorno grazie alla psicoanalisi, nel vuoto è più facile che emergano i contenuti inconsci. E talvolta essi incutono timore. Da questa prospettiva un buon percorso terapeutico aiuta una persona ad avere meno paura del silenzio, perché lo spazio analitico costituisce un contenitore per quelle tematiche psicologiche più latenti e pronte a “saltar” fuori nel temuto silenzio che possono però, a differenza di quando si è soli, beneficiare di una fiduciosa accoglienza e di una possibile compiuta elaborazione. Un buon percorso terapeutico non teme il nuovo e ciò di per sé predispone in maniera diversa verso il silenzio.
L’analisi, oltre a quanto detto sino ad ora, rappresenta un validissimo strumento rispetto alla possibilità di accedere ad un silenzio creativo anche perché nel setting analitico è ben presente la dimensione dell’ascolto. Un ascolto attento, rispettoso, volto al comprendere più che allo spiegare, che sa chiedere, ma che sa anche essere silenzioso e che in virtù di ciò aiuta ad ascoltarsi. Perché l’ascolto è quella dimensione che permette di realizzare il giusto equilibrio tra il silenzio e il suo rovescio della medaglia, ovvero sia la parola, che se nuova in senso lato porta con se qualcosa di realmente creativo. Per gli Antichi Greci, ha spiegato con grande sensibilità lo storico Roberto Mancini autori di ben tre saggi sul tema, il silenzio era trattenimento della parola perché così facendo avvicinava al proprio daimon. Non casualmente, osserva lo stesso Mancini, in primo luogo Socrate insegnava ai suoi allievi a tacere. Terminando possiamo dire che attualmente pare davvero importante, è l’analisi può facilitare in ciò, non perdere di vista la giusta relazione tra parola e silenzio in modo da poter evitare, parafrasando il Rainer Marie Rilke di “Lettere a un Giovane Poeta”, il rischio di trasformare il silenzio non ascoltato in vita non vissuta.