La famiglia, intesa come un’istituzione ben delineata e con un suo modo specifico di funzionare, si è trasformata e modificata talmente tanto negli ultimi decenni che pare decisamente più aderente alla realtà parlare di famiglie al plurale e non semplicemente di famiglia. In quasi mezzo secolo, più o meno a partire dagli anni 70 del secolo scorso ad oggi, si è passati dalla tradizionale famiglia patriarcale, dove spesso più generazioni convivevano sotto lo stesso tetto, ad un insieme di famiglie nucleari, formate esclusivamente da genitori e figli, piuttosto diverse tra di esse. Le famiglie nucleari assumono infatti molte vesti, come ben fotografa l’Istat tramite il suo ultimo censimento realizzato negli anni 2012-2013. Vediamone qualche numero, giusto per avere un’idea del fenomeno-famiglia. L’Istat ha censito circa 24 milioni di famiglie composte mediamente da 2,4 persone. Di queste 24 milioni di famiglie circa 7 milioni sono considerate nuove famiglie: ovvero famiglie monogenitoriali, famiglie ricostituite, sarebbe a dire nuclei familiari dove uno o entrambi i partner sono già stati precedentemente sposati, famiglie omogenitoriali, famiglie formate da single. Ci piace immaginare che se Tolstoj avesse l’opportunità di riscrivere oggi Anna Karenina, non direbbe “tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, bensì, che al pari di ogni famiglia infelice, ogni famiglia felice lo è a modo proprio. Scorrendo ancora qualche numero: le donne tendono ad avere il primo figlio in media intorno ai 32 anni; un 40% abbondante di giovani tra i 25 e i 34 anni vive ancora con i genitori; ed infine si può contare al massimo su una decina di parenti rispetto ai circa 30 degli anni 50. In sostanza, famiglie piccole e da cui si esce con molta lentezza e piuttosto avanti negli anni.
Al di là di tutti questi numeri, ciò che aiuta maggiormente a capire come si è evoluta la famiglia è il vedere la qualità dei rapporti umani tra i suoi vari componenti. Attualmente il tratto distintivo di tutte queste famiglie sembrerebbe essere una forte condivisione del quotidiano, decisamente assente nella famiglia tradizionale che si caratterizzava invece per una marcata distinzione di ruoli al suo interno e per una maggiore distanza relazionale tra genitori e figli. Al giorno d’oggi spesso genitori e figli discutono di qualsiasi argomento attinente la vita degli uni e degli altri, viaggiano insieme, vestono in maniera simile, sono amici sui social network. Probabilmente se un adolescente degli anni 50 avesse l’opportunità di viaggiare nel tempo e di trovarsi a passare delle giornate in una famiglia contemporanea, penserebbe di essere atterrato su Marte. Detto con una terminologia più tecnica, è come se la relazione genitori-figli fosse divenuta molto più orizzontale e paritaria rispetto ad un passato nel quale si caratterizzava per verticalità e autorevolezza. Naturalmente, tale evoluzione comporta vantaggi e svantaggi. “Dovere” poteva essere considerata una parola chiave all’interno della famiglia tradizionale, tutto ruotava intorno al seguire pedissequamente i propri doveri e alla conseguente tematica della colpa. Una famiglia rigida, che tra i suoi svantaggi spesso annoverava il fatto di suscitare un inadeguato senso di sé, ma che in un certo modo “costringeva” i ragazzi a puntare sulla propria autonomia. Molti figli non aspettavano altro che l’opportunità, e ciò quasi a qualunque prezzo esistenziale, di poter lasciare la casa paterna. Le famiglie attuali sono molto più morbide e accoglienti, sono un qualcosa che trasmette senso di appartenenza, e indubbiamente prestano più attenzione allo sviluppo psicologico e fisico dei bambini prima e dei figli poi, ma talvolta, soprattutto se la condivisione supera certi limiti e soglie, paiono divenire elementi che non facilitano l’autonomia e la possibilità di affrancarsi da esse.
Tale tendenza alla condivisione, molto positiva se favorisce la capacità di esprimere se stessi, sembra mostrare i suoi effetti negativi nel momento in cui diventa lo strumento genitoriale volto ad agli stessi genitori di crescere, i quali, così facendo, rischiano di ostacolare la crescita del figlio. Molti studiosi, psicoanalisti, cineasti, romanzieri, giuristi, hanno sottolineato come questo rischio attraversi le famiglie contemporanee. Per esempio, lo psicoanalista Massimo Ammaniti, ha dedicato un bel volumetto al tema, “La Famiglia Adolescente”, nel quale fa notare come molti genitori siano caratterizzati da una mentalità adolescenziale che impedisce loro di investire, anche da un punto di vista economico, e di “pensare” un futuro per i figli. Forse per cristallizzare il tempo, forse per la paura di invecchiare, come ben ci racconta Fausto Brizzi nel suo “For ever young”. Oppure ancora si pensi al saggio “Senza Adulti”, del celebre giurista Gustavo Zagrebelsky, nel quale questo preparatissimo studioso riflette sul fatto che la nostra società sembra caratterizzata dall’assenza del tempo della maturità. Si domanda Zagrebelsky senza ricorrere a troppi giri di parole: “Dove sono gli uomini e le donne adulte, coloro che hanno lasciato alle spalle i turbamenti, le contraddizioni, le fragilità, gli stili di vita, gli abbigliamenti, le mode, le cure del corpo, i modi di fare, persino il linguaggio della giovinezza e, d’altra parte, non sono assillati dal pensiero di una fine che si avvicina senza che le si possa sfuggire? Dov’è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore?” In sostanza, è come se ogni autore citato, parlando ognuno il linguaggio che gli è più familiare, si chiedesse retoricamente: “Del resto, se non è un adulto a comportarsi come tale, perché dovrebbe farlo chi adulto ancora non è?”
Onestamente, ci sentiamo di condividere tutte queste osservazioni, però vorremmo cercare di guardare il tutto più specificatamente dalla prospettiva dell’adolescente e non dalla prospettiva dell’adulto-genitore. Più precisamente, cosa tolgono le famiglie attuali al giovane, o rischiano di togliergli, quando sono dominate da quest’eccesso di condivisione e orizzontalità?
Per rispondere a questa domanda sia consentita una breve digressione teorica. In “Tipi Psicologici” Carl Gustav Jung scrive che “l’individuazione è un processo di differenziazione che ha per metà lo sviluppo individuale”, che risponde ad un bisogno, aggiunge subito dopo, insito nella psiche al pari di una “necessità naturale” (Jung, 1921, pag. 462, Op. Vol. 6). Si potrebbe obiettare: “Perché mai l’essere umano dovrebbe avvertire così tanto l’esigenza di differenziarsi dai suoi simili?” Perché l’uomo ha la necessità di cogliere la propria identità, di rispondere all’inevitabili domande relative al “Chi Siamo?” – “Chi Sono?”, e per fare ciò deve necessariamente differenziarsi dall’altro, cioè avere coscienza di cosa lo distingue dagli altri essere viventi o dall’altro della sua stessa specie. In altre parole, per avere coscienza di sé qualunque persona deve avere coscienza di qualcosa di altro che le permette anche di avere consapevolezza di se. Molti studi dell’infant research, per una rassegna dettagliata in proposito si potrebbe consultare qualche lavoro di Daniel Stern, mostrano per esempio come un neonato alla nascita tenda a non percepire se stesso come separato fisicamente dalla madre: solo dopo qualche settimana il bambino inizia ad avere una sorta di consapevolezza che l’altro, in questo caso la madre, è appunto altro. Capendo delle differenze diventa consapevole. Questo processo, che ovviamente con la crescita diviene via via più complesso e maggiormente legato ad aspetti psichici anziché corporei, accompagna l’essere umano per tutta la vita. Ed è un qualcosa che richiede spazio e tempo: così come il neonato impiega varie settimane per capire il suo essere separato dalla madre (e dall’ambiente intrauterino), così le altre tappe esistenziali richiedono un tempo e uno spazio privato e di elaborazione che permette di cogliere la propria specificità. Specificità che mette in condizione di capire chi si è realmente, e che permette quindi di sviluppare la personalità più autentica di cui parla Jung. Tornando al nostro discorso, ciò implica che le famiglie contemporanee, quando dominate eccessivamente dalla condivisione e da relazioni fin troppo orizzontali, rischiano di privare il figlio proprio di questo prezioso momento di crescita legato un tempo e uno spazio privato di elaborazione. Per chiarire meglio, facciamo un piccolo esempio. Si pensi per un istante ad una ragazza, adolescente o giovane adulta, che racconta e condivide con i genitori tutto ciò che le accade in una sua relazione sentimentale. Non omette particolari: parla liberamente di sessualità, delle discussioni con il partner, chiede consigli e suggerimenti su cosa fare o non fare rispetto a “incorreggibili difetti” del partner, non nasconde il come si percepisce dentro una certa relazione, e via dicendo. Sembrerebbe un rapporto, questo tra genitori e figlia, molto libero e quasi tra amici. Con ogni probabilità ne verranno fuori delle buone riflessioni, tuttavia una condivisione così presente e una vicinanza emotiva è così stretta possono portare ad una con-fusione dei vissuti. Potrebbe sovrapporsi quasi il chi prova che cosa. I vissuti di madre, padre e figlia potrebbero incrociarsi a tal punto da rendere un’esperienza di per sé piuttosto intima e individuale, come può esserlo una relazione sentimentale, fin troppo simile ad un’esperienza di gruppo, con il rischio di smarrire il significato individuale dell’esperienza rispetto alla propria esistenza.
Oltre a quanto detto sino adesso, mancando un momento più privato e intimo di elaborazione si toglie al giovane una possibilità psichica davvero importante: l’occasione per iniziare a rinunciare alla scudo protettivo dei genitori. Una rinuncia per molti versi impegnativa, se è vero come ci ricorda Enrico Brizzi che “il passo più lungo del viaggio è quello per uscire di casa”, ma necessaria per crescere e per imparare la difficile arte del farsi carico delle proprie scelte. Un tipo di rinuncia con cui i vari membri di una famiglia attuale non possono non misurarsi.