Coltivare la Lentezza: la sua Importanza Psicologica Davanti al Vuoto

Ogni epoca storica conosce difficoltà psicologiche specifiche. Il periodo in cui è nata la psicoanalisi per esempio – ovvero tra fine Ottocento inizio Novecento – è stato caratterizzato da psicopatologie legate alla rimozione e alla dissociazione degli aspetti più istintuali dell’uomo, mentre attualmente il disagio collettivo più diffuso pare essere  legato ad una certa inquietudine e irrequietezza di fondo: è come se le persone, chi più chi meno, non potessero stare ferme, come se dovessero, ma sarebbe forse meglio dire dovessimo, fare sempre qualcosa, quasi come se si dovesse sempre testimoniare agli altri e a sé stessi che si sta vivendo, poiché – questa l’idea generale – tutto sommato è solo facendo tanto e velocemente che si vive.

Questo modo di fare comporta tuttavia una frenesia generale che più che aiutare finisce con il penalizzare da un punto di vista psicologico: tutto avviene ad una velocità così elevata e ininterrotta da divenire controproducente, sia perché il troppo movimento collettivo ad un certo punto diviene di per sé ansiogeno, sia perché il fare tutto con un ritmo troppo sostenuto non facilita affatto la possibilità di godersi realmente le esperienze che si fanno.

Tale frenesia, per esempio, è evidente nel modo in cui viaggiamo. Siamo immersi in una fase sociale in cui si viaggia molto di più rispetto al passato, ma in molte occasioni tanti viaggi si tramutano in una due giorni nei quali vedere quante più cose possibili: come una pallina da flipper si rimbalza da un posto all’altro, come se fosse un obbligo non saltare neanche una tappa del tour che è stato organizzato da un’agenzia viaggi o da noi stessi. Così facendo – scrive Robert Mercurio nella postfazione del bel diario di viaggio di Daria Ortolani “Attraverso la Terra Rossa” – “un viaggio si riduce a un’occasione per scattare delle foto, comprare dei souvenirs e forse gustare frettolosamente la cucina locale prima di andare avanti verso la meta successiva”. In altre parole, un viaggio non diviene un’esperienza psicologica, manca – citando ancora R. Mercurio – il “tempo materiale e il tempo spirituale perché il genius loci possa attivarsi e in qualche modo toccare la sensibilità del turista per cambiarlo, per trasformare il suo punto di vista e aprirgli la mente”.

Questo esempio sul viaggiare non è casuale per un paio di ragioni: perché spesso in analisi si ha la possibilità di ascoltare resoconti di viaggi nei quali ci si è spostati con fretta da un luogo all’altro che  tuttavia hanno lasciato i viaggiatori con la sensazione di aver fatto poco; e più in generale perché costituisce una fotografia di quello che accade, o rischia di accadere, in tanti altri ambiti della vita. La stessa voracità di voler fare la si può riscontrare con la tecnologia, dove si desidera sempre qualcosa di più potente; con il lavoro, come se si dovesse inseguire una crescita infinita; e talvolta con le relazioni, dove si finisce con il fantasticare che in un teorico altrove ce ne siano sempre di migliori. Il rischio psichico, in sintesi, è quello di incappare in una bulimia di esperienze senza che nessuna risulti realmente appagante, poiché è come se si immaginasse che potrebbe esserci sempre di più in ogni ambito esistenziale.

Naturalmente l’essere umano di oggi non è affatto peggiore di quello qualche decennio addietro o dei secoli precedenti, probabilmente sente solo in maniera più acuta il problema del vuoto, il timore cioè di non essere nessuno in un mondo così grande e impegnativo. Il mondo di oggi è infatti psicologicamente estremamente più esteso: basti pensare che nei secoli precedenti, fino anche a poco prima della nascita della Tv, per moltissime persone esso coincideva con i ristretti confini della propria città, e questo era sia molto limitante, ma allo stesso tempo aveva anche un che di rassicurante. Oggi non è così: si gode – per fortuna – di una libertà molto più ampia, ma allo stesso tempo si è esposti in misura marcata alla sensazione di essere un minuscolo granello di sabbia in un mare grandissimo. Di qui il vuoto. E a questo scottante problema, si tende a rispondere cercando di fare con velocità quante più possibile, il che tuttavia, come dicevamo poc’anzi, non paga perché lascia con quell’insoddisfazione di fondo a cui talvolta è anche difficile dare un nome.

Da quanto detto sino adesso, si deduce che la lentezza potrebbe esserci di aiuto rispetto alle difficoltà attuali, e questo ci pone dinanzi alla questione del come possiamo intenderla da un punto di vista psicologico. Da quest’ultima angolazione, la lentezza può essere immaginata come l’alternarsi due momenti che permettono una comprensione maggiore di un fenomeno che interessa: un lasciar fluire liberamente dentro di sé un qualcosa che attira la propria attenzione per vedere che sensazioni, che emozioni, che intuizioni, fa risuonare internamente; alternato con una fase in cui ci si concede il tempo necessario per mettere insieme i pezzi, per collegare in maniera originale e sentita quanto prima si era avvertito in una maniera per così dire di “pancia”. Tornando sull’esempio del viaggiare significherebbe concedersi il tempo, magari tralasciando qualche tappa del tour, di lasciar circolare interiormente le esperienze vissute per veder se in qualche modo restituiscono qualcosa di nutriente e istruttivo sul nostro conto, ovvero qualcosa che aiuti nello scoprire un qualche lato di sé di cui si è poco consapevoli, e che sia di aiuto anche nel capire meglio la relazione che si ha con il mondo. In altre parole, agire lentamente significa sia lasciare alle esperienze esterne la possibilità di operare come uno specchio nel quale vedersi e riconoscersi, sia lasciare a sé stessi lo spazio per ascoltare ed elaborare tutto il magma interno che accompagna tutte le esperienze potenzialmente significative.

Il viaggio – scrive Claudio Widmann in un saggio monografico sull’argomento – si precisa in tutto il suo spessore quando venga inteso non tanto come spostamento fisico, ma soprattutto come esperienza psichica. In questo senso costituisce un evento capace di plasmare, modificare o alterare l’identità di chi lo compie, e in questo senso è, autenticamente, analogico all’esistenza”. In quest’ultimo passaggio l’autore coglie un punto centrale: ciò che vale per un viaggio può valere per tantissime altre esperienze nella vita. Verissimo, tuttavia preme anche aggiungere che senza lentezza non si va da nessuna parte: così come senza di essa un viaggio rischia di diventare un continuo spostamento di luogo, così le altre esperienze corrono il pericolo di rimanere fini a sé stesse e incapaci di fronteggiare il vuoto di fondo, poiché perdono la possibilità di far cogliere qualcosa di più ampio per la vita di uno specifico singolo individuo. Senza lentezza, potremmo azzardare, è a rischio la possibilità di captare il senso di quanto si fa.

Colta l’importanza della lentezza, rimane – visto che abbiamo poca dimestichezza in tal senso – un’altra questione sul tavolo: come la si può coltivare? Attraverso una serie di attività quali il camminare in solitudine, facendo yoga e/o meditazione, coltivando un’attività creativa senza smania per il risultato finale, lasciandosi degli spazi di silenzio durante la giornata, per mezzo della psicoterapia che, essendo sull’ascolto e sull’ascoltarsi, promuove di suo la lentezza, è possibile sicuramente favorirla. Ciònonostante tutte queste bellissime attività potrebbero non bastare ad apprendere in toto l’arte della lentezza: per renderla una dimensione psichica stabilmente appartenente ad una specifica persona, pare decisamente necessario riuscire a coltivare un abito mentale quotidiano legato ad un fermarsi inteso come un non cadere dentro le emozioni. Una piccola precisazione: non si tratta di un non provare emozioni, bensì di un non venir trascinati da esse. Un piccolo esempio che può riguardare il quotidiano di chiunque: si ha una discussione accesa con un amico, con un partner, sul posto di lavoro, ect…; una volta terminata rimane come una voglia di continuare, metaforicamente, a sferrare colpi, a “boxare”, come se ci fosse una spinta ad agire subito. Possiamo immaginare questa spinta ad agire come un’emozione grezza, ed è di fronte ad essa che è opportuno imparare a fermarsi. Farlo, il che non significa essere sconfitti o arrendevoli, permette all’emozione stessa di trasformarsi nella matrice di nuove sensazioni, idee e pensieri, che non di rado costituiscono la premessa sia per digerire meglio quanto accaduto, sia per affrontarlo meglio.

Un piccolo ma allo stesso tempo magistrale esempio del cosa può significare fermarsi ce l’ha donato Milan Kundera: “Guardo nello specchietto retrovisore: sempre la stessa macchina che non riesce a superarmi a causa del traffico in senso inverso. Accanto al guidatore è seduta una donna; perché l’uomo non le racconta qualcosa di divertente? Perché non le appoggia la mano sul ginocchio? Macché: l’uomo maledice l’automobilista davanti a lui perché va troppo piano, e neppure la donna pensa a toccarlo con la mano, mentalmente sta guidando anche lei, e anche lei mi maledice”. E’ come se l’automobilista e la sua compagna di viaggio fossero stati guidati dall’emozione grezza – probabilmente la rabbia in questo caso – associata al traffico, tutto il resto è come se si fosse oscurato e fosse scomparso. Fermarsi, andare lentamente, regala, invece, la possibilità di uno sguardo più ampio e rotondo, meno vittima della frettolosa unidirezionalità di prospettiva tipica delle emozioni grezze. E ciò non è affatto poco, poiché dona una serenità interiore utilissima anche davanti al vuoto che in quest’epoca storica tutti, in misura forse diversa, si trovano a dover fronteggiare.

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