“La bellezza salverà il mondo”, frase che ha reso celebre il principe Myskin de “L’Idiota di Dostoevskij, è una di quelle espressioni che hanno la potenza di segnare un’epoca. Non si tratta solo di un fortunato slogan – anche se a forza di ripeterlo potrebbe anche divenirlo – poiché essa sembra indicare una direzione verso la quale muoversi all’interno di una società di per sé piuttosto caotica e brutale; tuttavia non è una frase semplice da interpretare. Si capisce, se si tiene in debita considerazione questa sua capacità di indicare una strada, la diffusione di “la bellezza salverà il mondo”, e si capisce altresì intuitivamente come in essa riecheggi un che di speranzoso e protettivo; ciononostante risulta difficile tradurre concretamente questa speranza tutelante. Il che ci porta inevitabilmente a chiederci: di che tutela si tratta?
Thomas Moore, un grande studioso dotato di una vastissima cultura ed esperienza psicologica-teologica-filosofica e musicale, ha scritto ne “Il Chiostro del Mondo” che “l’artista che lavora in dialogo con la musa è forse il miglior teologo, e il teologo che pensa, parla e scrive poeticamente e probabilmente la più affidabile fonte di conoscenza religiosa”. Questo per dire che la tutela derivante dalla bellezza, a cui poc’anzi si accennava appena, pare essere in qualche modo una protezione legata alla speranza che dalla bellezza possa nascere una spiritualità viva e rinnovata in grado di costituire una vera fonte di nutrimento per moltissimi singoli individui.
In effetti, numeri alla mano, parrebbe proprio questa la richiesta implicita avanzata al mondo dell’arte. Il Ministero dei beni culturali ha calcolato che musei e siti archeologici italiani nel 2018 hanno registrato oltre 55 milioni di ingressi. Limitandoci alla sola Regione Lazio, si è passati dai quasi 7 milioni di visitatori del 1996 ai 25 abbondanti del 2018. Numeri da record, come spiegarli? Naturalmente incrementi così significativi potrebbero essere in parte dovuti ad indovinate campagne pubblicitarie, o alla gratuità di alcuni musei; tuttavia pare esserci qualcosa di più profondo in atto. Se consideriamo – come probabilmente dovremmo – musei e siti archeologici come dei santuari per così dire laici, e se poniamo questi dati in relazione con il calo netto del numero di persone che nello stesso arco di tempo hanno smesso di definirsi cattoliche praticanti, non possiamo non notare come essi abbiano un valore diverso: certificano una presenza diffusa di una spiritualità che sta cercando una risposta non tradizionale.
E qui arriviamo ad un punto molto delicato: l’arte, e quindi la bellezza, riescono realmente a rispondere, a questa esigenza di nuova spiritualità poco sopra ipotizzata? In altre parole, oggi come oggi la bellezza riesce veramente a salvare il mondo? Carl Gustav Jung, in un dialogo con J.P.Hodin – critico e storico dell’arte inglese – del 1952, si è mostrato un pochino scettico al riguardo affermando che “l’arte tutto a un tratto ha perduto la fede nella bellezza”. Ha manifestato più che altro delle perplessità non tanto sulla bellezza in sé e sulle sue possibilità di essere di aiuto all’uomo e al mondo, quanto sulle capacità dell’arte contemporanea di relazionarsi ad essa. Sul pensiero di Jung in proposito vale la pena soffermarsi meglio, perché questo brillantissimo studioso, oltre ad essere stato quel grandissimo psicologo analista di fama internazionale per cui risulta un nome noto al grande pubblico, era per alcuni versi anche dotato di una spiccata personalità artistica e creativa; lo testimoniano i suoi talentuosi disegni e acquarelli giovanili, la puntualissima dedizione per le miniate del Libro Rosso, le varie sculture presenti nella casa di Bollingen da egli stesso realizzate, l’interesse mostrato per l’arte in tutti i suoi numerosi viaggi, i suoi saggi su James Joyce e Pablo Picasso, e infine le sue idee sull’istinto creativo inteso come un impulso autonomo all’interno della psiche. Un osservatore – partecipante dunque del tutto peculiare, in quanto capace di riflettere in termini psicologici, volendo anche critici, verso un mondo quello dell’arte, del quale sentiva potenzialmente di poterne fare parte e del quale riusciva, proprio in virtù di questa sua condizione, a coglierne possibili limiti e potenzialità.
Vedendo quindi più nel dettaglio, cosa voleva poter dire lo studioso svizzero sostenendo che “l’arte ha perduto la fede nella bellezza”? Domanda molto difficile a cui rispondere, perché richiederebbe come premessa un cercare di rispondere al cosa sia la bellezza. E tale questione a sua volta ci costringe ad una digressione e ad una specificazione, perché naturalmente l’idea di bellezza non è sempre stata la stessa nel corso dei secoli. Nell’Antica Grecia per esempio l’idea di bellezza era identificata con la proporzione e con l’armonia, mentre per un’ottica medioevale un qualcosa era bello se possedeva luminosità e integrità, ovvero un’opera artistica per essere realmente tale doveva sia emanare una certa quantità di luce, sia avere tutte quelle caratteristiche che generalmente venivano attribuite all’oggetto o alla figura rappresentato attraverso l’opera stessa. Se arriviamo infine all’attualità, è addirittura forse anche superfluo notare come l’arte contemporanea abbia poca cura dei canoni estetici tradizionali, essendo essa più interessata a scuotere le coscienze che non a soddisfare un piacere per i sensi. Oltre a cambiare nel tempo, l’idea di bellezza risente inoltre anche del contesto culturale in cui si sviluppa: in Africa, per esempio, esistono manichini in legno rappresentanti corpi femminili ammiratissimi – basti pensare ad alcune opere realizzate in Mali – che in Occidente certamente valuteremmo diversamente. Tutto ciò per dire che non esiste un’idea univoca di bellezza, di conseguenza non possiamo rispondere alla delicata questione del cosa sia la bellezza, al più – cercando di non perdere di vista “l’arte ha perduto la fede nella bellezza” di junghiana memoria – possiamo cercare di cogliere l’idea di bellezza insita nel pensiero dello studioso svizzero e tentare di capire se questo modo di intenderla possa in qualche modo contribuire a salvare il mondo.
Interrogato su questo suo timore che l’arte avesse perso fede nella bellezza, Jung rispose argomentando che l’arte moderna aveva la tendenza a rivolgere troppo lo sguardo solo verso l’interno, finendo così con l’incontrare soprattutto le macerie individuali presenti nel singolo e a livello collettivo: “L’arte trae vita dalla situazione contemporanea e insieme la esprime; in questo senso è profetica. Ci parla del nostro humus e degli strati profondi così come una pianta ci parla della natura e della terra. I miei pazienti dipingono quadri simili a quelli degli artisti moderni: quando ci si trova in uno stato caotico, tutte le forme si dissolvono”. Il punto è secondo Jung che l’arte non può limitarsi a prendere atto della situazione, in quanto – ricorrendo ancora alle sue parole – “la dissoluzione esige una sintesi”.
Come trovare tale sintesi? Jung sembrerebbe suggerire la necessità di uno sguardo bidirezionale capace di coniugare interno e ed esterno: se da una parte si rende ben conto della necessità di uno sguardo che sappia penetrare a fondo nella psiche per coglierne quell’impulso unitario e ricostruttivo che giace sotto quel caos colto dall’arte moderna, la quale- a suo modo di vedere – ha spesso il limite di non sapere andare oltre questo cumulo di macerie; da un’altra parte non si stanca mai di sottolineare come sia essenziale che tale sguardo così profondo riesca ad emergere da questa profondità psichica per comunicare alla società il suo “bisogno incompreso”. In “Psicologia e Poesia” ha scritto: “Ogni epoca ha le sue unilateralità, i suoi pregiudizi e il suo malessere psichico. Un’epoca è come la psiche del singolo, ha la sua limitata specifica situazione cosciente e ha perciò bisogno di una compensazione; questa le è fornita dall’inconscio collettivo; di modo che un poeta o un veggente esprime l’inesprimibile della sua epoca e dà vita, nell’immagine e nell’azione, a ciò che il bisogno incompreso di tutti attendeva”. Dal leggere con attenzione questo pensiero, se ne può ricavare che artista è colui/lei che sa appunto guardare contemporaneamente in due direzioni: occhi e orecchie abbondantemente disposti verso l’inconscio collettivo, ma che sappiano anche dare forma ad un’opera che sia “digeribile” per la società in genere, perché è a quest’ultima che l’artista restituisce qualcosa. L’artista, è per logica estensione l’arte, nella concezione junghiana uniscono, mettono insieme dei frammenti guardando oltre e dando una voce e una forma un pochino più compiuta ad un qualche aspetto poco conosciuto di sé stessi e di quanto circonda. Da quanto scritto sinora ne consegue che per Jung la bellezza è un qualcosa di unitario, un qualcosa in grado di facilitare un pezzetto di comprensione in più di quanto abita nel cuore profondo della psiche umana.
Questa concezione unitaria della bellezza in Jung la troviamo, per esempio, in un suo stupendo mandala del 1916 – il “Systema Mundi Totius” – nel quale arte e scienza sono collocate vicine all’interno di un processo circolare dal quale risulta evidente che tra arte, cioè bellezza, e scienza, cioè conoscenza, intercorra un legame quasi inscindibile, nel senso che l’una può avere un effetto benefico e stimolante sull’altra e viceversa. Riflettendo meglio su questo mandala, e considerando più nel complesso la vita e le opere di Jung, possiamo sia notare come per il maestro zurighese la bellezza emerga spesso sotto forma di “visione” dalle profondità psichiche, sia rilevare come tale bellezza per così dire profonda influenzi positivamente la possibilità di comprendersi e di approcciarsi alla psiche stessa. Da questa angolazione, bellezza e conoscenza in Jung procedono non di rado di pari passo: la bellezza nasce anche – perché è naturalmente evidente anche l’esistenza di una bellezza già di per sé esistente fuori – dalla psiche, e la psiche riesce a conoscere sé stessa anche grazie ad una bellezza che l’aiuta nel vedere qualcosa che fino ad allora non era riuscita a vedere.
In tale concezione della bellezza è insita l’evenienza che bellezza e bello, inteso dal punto di vista estetico, non necessariamente coincidono. Per Jung la bellezza deve o dovrebbe essere utile, deve o dovrebbe avere un senso manifestando la capacità di rappresentare qualcosa di altrimenti per sé poco rappresentabile e conoscibile, e non limitarsi ad essere un qualcosa che trova un fine soltanto in sé stessa. Da questo punto di vista, ad esempio, potremmo ipotizzare che Jung avrebbe considerato belle le opere di Fernando Botero, perché, con i suoi corpi così voluminosi ma non privi di un che di sensuale, permettono di vedere, in particolare alla società di oggi, che bellezza e perfezione non sono esattamente la stessa cosa. In una società con forti tratti narcisistici come la nostra, le opere di Botero costituiscono una piacevolissima sorpresa e al contempo utile compensazione psicologica da questo punto di vista, per tale ragione ci permettiamo di immaginare che Jung le considererebbe belle. Perché tutto sommato per il grande studioso svizzero la bellezza e l’arte sono tali se svolgono una “funzione sociale”, quella di ampliare la coscienza dell’uomo.
Tornando per concludere alla domanda iniziale relativa al fatto se la bellezza può salvare il mondo, non possiamo far altro che prendere atto dell’impossibilità di rispondere in maniera certa e sicura a tale domanda; quello che possiamo fare è limitarci a constatare – da una prospettiva junghiana – che se esiste, anche una minima possibilità che la bellezza possa contribuire a salvare il mondo, questa sembrerebbe passare attraverso il coltivare quello stretto e costante legame che scorre quasi sotterraneo tra bellezza e quegli aspetti psicologici profondi, da cui talvolta trae origine e che può a sua volta influenzare, in modo da facilitare un rinnovamento della coscienza, sarebbe a dire del nostro modo di vedere noi stessi, gli altri e quanto ci circonda.