L’avarizia

La Chiesa cattolica ha sempre ritenuto l’avarizia un vizio capitale, non a caso i vari ordini monastici ne hanno di volta in volta evidenziato caratteristiche capaci di incidere negativamente sull’umanesimo presente nell’uomo. Per esempio, secondo i benedettini l’avarizia non predispone l’animo verso la carità, per i francescani impedisce la realizzazione del bene comune, oppure da San Paolo viene considerata “il peccato dei peccati”. Ma il passaggio ecclesiastico che, probabilmente, più di ogni altro coglie una qualità essenziale dell’avarizia è contenuto nel vangelo di Matteo (6, 24) allorquando viene detto: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.”.

Un vizio basilare, quindi, secondo la Chiesa perché qualcosa viene posto più in alto di Dio, anzi finisce con il prenderne il posto sostituendolo. Ed in effetti, psicologicamente parlando, è come se l’avaro venisse afferrato da un sentimento religioso verso un oggetto materiale. Se si pensa al celebre Don Arpagone, de “L’Avaro” di Moliere, si può vedere come egli abbia un rapporto carnale, fisico, con il denaro. Lo tiene nascosto al riparo da sguardi indiscreti, lo tocca, lo odora, sente il rumore delle monete, in un crescendo che rende un qualcosa di materiale un vero e proprio oggetto di culto. Stefano Zamagni, ordinario di economia politica all’Università di Bologna e autore di un bel saggio di matrice storica-economica sul tema avarizia, descrive il comportamento dell’avaro come sostanziato da tratti inconfondibili: un accumulare senza investire; un conservare senza usare; un possedere senza condividere. In altre parole, secondo Zamagni l’avaro è posseduto delle cose, pensa di avere a disposizione grandi possibilità di libertà senza rendersi ben conto di come possa essere invece schiavo di ciò che accumula e custodisce con tanta attenzione. Da questa prospettiva, un altro celebre avaro della letteratura quale Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga costituisce un esempio illuminante: “Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui.”  Tornando agli aspetti psicologici del nostro discorso sull’avarizia, si potrebbe dire che non è l’avaro ad avere desideri e impulsi legati al possedere qualcosa, ma gli impulsi e i desideri a possedere la persona avara.

Se in qualche modo l’avarizia esercita un fascino sinistro in quanto collegata ad un’idea di libertà e felicità, sempre secondo Zamagni, c’è la possibilità che al giorno essa possa essere particolarmente diffusa perché nella nostra società c’è comunque, almeno potenzialmente, una possibilità di possedere beni molto più ampia rispetto a periodi storici precedenti. Tale riflessione pare confermata dall’osservazione clinica: attualmente capita sempre più frequentemente di lavorare a studio con persone afferrate dall’avarizia, in qualche modo stanche e insoddisfatte del loro modo di relazionarsi alla vita e in cerca di un aiuto che possa renderle libere da uno stato dell’animo che finisce spesso con l’ossessionarle. Per fornire una possibile risposta a questa richiesta di aiuto in ambito terapeutico, pare utile chiedersi quale funzione psicologica generalmente assolve l’avarizia all’interno dell’economia psichica di un individuo che in qualche modo ne soffre. Addentrandoci maggiormente in una sorta di fenomenologia dell’avarizia, possiamo intravedere una doppia tipologia di questa forma mentis che tende, in entrambe le tipologie, a svolgere una funzione difensiva talvolta rispetto alla paura del futuro e della vita, e talvolta, anche se le due possibilità sembrano l’una il rovescio della medaglia dell’altra, dalle paure collegate all’entrare in relazione con gli altri. Il primo caso sembra ben esemplificato da una celebre parabola di Gesù nella quale un signore assegna a tre suoi servitori dei denari prima di partire per un viaggio, raccomandandosi di farne buon uso sino al suo ritorno. Al suo rientro, il primo e il secondo mostrano di essere riuscire a moltiplicare i denari avuti, mentre il terzo servitore, che aveva ben nascosto il denaro sotto terra, non può che restituire la somma ricevuta. Per paura di perdere i suoi talenti, quest’ultimo servitore, in sostanza, ha preferito non fare nulla per tutto il periodo di assenza del suo padrone, suscitandone in seguito, proprio a causa questo suo atteggiamento rinunciatario, un’ira funesta. Il terzo servitore, rinunciando in anticipo ad ogni progetto, mette in scena un meccanismo psicologico tipico di questa forma di avarizia: il rifiuto di voler perdere eventualmente qualcosa diviene così paralizzante da tramutarsi in uno strumento che impedisce la possibilità di ogni realizzazione soggettiva. Un avaro del genere in salsa moderna potrebbe, per esempio, non riprendere gli studi universitari perché le tasse sono troppo onerose; non avviare una piccola impresa, un suo piccolo sogno nel cassetto, perché non sarebbe mai il momento storico opportuno; decidere di non provare ad avere un figlio, perché i figli costano. In parole molto semplici, la paura di perdere quanto si ha blocca ogni progetto che potrebbe essere fonte di soddisfazione personale, di fatto favorendone un rinvio in un futuro migliore collocato in un arco temperale non ben specificato. La seconda tipologia di avarizia la rintracciamo in maniera illuminante, oltre che nel già citato Don Arpagone, in Ebenezeer Scrooge , noto protagonista del “Canto di Natale” di Charles Dickens. Scrooge è un vecchio uomo d’affari, impegnato con cinismo nell’impresa di fare sempre più soldi. Semplicemente, tutto il resto non gli interessa. Per descriverlo al meglio, lasciamo per qualche rigo la parola a Dickens: “Caldo e freddo non facevano effetto sulla persona di Scrooge. L’estate non gli dava calore, il rigido inverno non lo assiderava. Non c’era vento più aspro di lui, non c’era neve che cadesse più fitta, non c’era pioggia più inesorabile. Il cattivo tempo non sapeva da che parte pigliarlo. L’acquazzone, la neve, la grandine, il nevischio, per un sol verso si potevano vantare di essere da più di lui: più di una volta si spargevano con larghezza: Scrooge no, mai. Nessuno lo fermava mai per via per dirgli con cera allegra: “Come si va, caro il mio Scrooge? a quando una vostra visita?” .  Scrooge odia il Natale perché è un giorno di festa, di inutile astensione dal lavoro, e contornato da un’atmosfera generale che finisce con il mal disporlo ulteriormente verso gli altri. Non a caso costringe il suo unico impiegato, Bob Cratchit, vessato e sottopagato e con un figliolo malato a casa, a lavorare anche il giorno della vigilia e a recuperare il tempo perduto a Natale il giorno di Santo Stefano. Scrooge vuole avere sempre di più, ma non gode di nulla. Non sembra affatto una persona felice, pare che non gli basti mai nulla. E’ come se tutta questa brama di possedere fosse un tentativo di voler controllare la vita, di tenere sotto scacco quanto può far male, sarebbe a dire l’amore, la morte, le privazioni, la malattia. L’incontro con lo Spirito del Natale passato ricorda a Scrooge tutto ciò: la sua infanzia in collegio segnata dalla morte della madre, la successiva perdita della sorella a cui era molto legato, ed infine la rottura con Ella, la sua fidanzata, da cui uscirà fuori lo Scrooge gelido e solitario incontrato all’inizio del racconto di Dickens. Un chiudersi, un indurirsi, volto ad evitare altra sofferenza attraverso un voler negare l’Altro e la sua importanza. Dietro molte persone avare si cela uno Scrooge che soffre. Scrive Marie-Louise Von Franz in “L’individuazione nella fiaba”: “Ogni passione ha un aspetto simbolico. Si prendano ad esempio gli individui che stravedono per i soldi. E’ raro che desiderino di per sé il denaro, che ha per loro piuttosto un significato simbolico. Su di esso proiettano la pienezza della vita, il potere o la libertà, e sostengono che se avessero abbastanza denaro non sarebbero più schiavi degli obblighi e delle convenzioni sociali. Oppure proiettano sul denaro il senso di sicurezza, e meno sono sicuri di sé e della vita più sono avidi e accumulatori”  (Von Franz, 1987, pag. 51).

Da ciò risulta implicito che per lavorare sull’avarizia pare necessario cercare di rinunciare al senso di sicurezza che essa stessa fornisce. Per far ciò è utile osservare l’avarizia non come se fosse un tratto immodificabile del carattere, bensì come se si avesse dinanzi allo sguardo un atteggiamento verso la vita di cui si è colto poco il significato più nascosto. Per capire meglio ciò, ci è nuovamente di aiuto il vecchio Scrooge: dopo aver incontrato i tre Spiriti del Natale, quello già citato del Natale passato, quello del Natale presente, e quello del Natale futuro, egli riscopre la possibilità di donare e di donarsi agli altri. Ciò avviene perché riesce a “rivedere” la sua storia con occhi diversi e con un cuore disposto ad ascoltare diversamente. Ripercorre le tappe della sua vita senza volerle annullare per mezzo dell’avarizia, bensì trovando il modo di farsene carico. E tale tuffo, tale rituffarsi, nella vita pare quel tipo di esperienza simbolica, intesa come momento carico di significato e proprio in virtù di ciò trasformativo, di cui necessita l’avarizia, a prescindere dalla forma con cui si manifesta, per lasciare spazio psichico a quanto immobilizzato sino a quel momento.

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