Il rifugiarsi in fantasia, il fantasticare, è sempre stato visto con un certo sospetto dal mondo della psicoanalisi, perché considerato, facendo ricorso ad una definizione da dizionario usata da Vittorio Lingiardi, per lo più un “mezzo per non affrontare o risolvere problemi esterni e/o come modo di esprimere e soddisfare i propri sentimenti e desideri” (Lingiardi 1994, pag. 151). Il classico sognare ad occhi aperti, a cui talvolta chiunque ricorre, e che a livello psicologico somiglia ad un ritiro nel quale trovare un po’ di ristoro affettivo. Una possibilità, quest’ultima, che è sempre presente in ognuno di noi, se è vero come sosteneva Sigmund Freud, che l’essere umano nasce in una condizione in cui è completamente assorbito in se stesso, da egli chiamata di narcisismo primario, per passare solo successivamente ad una più relazionale ed aperta agli altri. In altre parole, una possibilità regressiva presente in tutti, che rischia di diventare psicologicamente pericolosa se tramutata in un cronico meccanismo difensivo.
La psicologia analitica di Carl Gustav Jung ha cercato di non gettare tutta la fantasia nel cestino, operando una distinzione tra fantasia, intesa nella maniera classica della psicoanalisi, e immaginazione. La prima, secondo Jung, è un “pensiero senza sostanza” che tende, nel senso negativo del termine, a giocare con gli oggetti ed elementi della fantasia; mentre l’immaginazione vera e propria tenta di “comprendere i fatti interni e di rappresentarli con immagini fedeli alla loro natura” (Jung 1944, pag. 167).
Non casualmente, in un suo scritto, “Le Due Forme del Pensare”, Jung ha affermato che in ogni individuo coesistono due forme di pensiero: una modalità più indirizzata, razionale, logica; ed una più fluida, capace di cogliere essenze e forme globali. Un pensare quest’ultimo, definito dal maestro svizzero, “mitologico”. Il pensiero non indirizzato è più arcaico, filogeneticamente più antico, e in virtù di ciò è in un certo senso matrice della coscienza. Questo ha portato Jung ad affermare che per alcuni versi, ogni realtà psichica esiste prima sotto forma di immagini, di pensiero immaginale, e solo poi nella realtà esterna. Mi si lasci argomentare meglio ciò, facendo un piccolo esempio di realtà quotidiana: un bambino per formularsi un’idea dell’evento nascita necessità prima di un’immagine che possa sentire valida, quale per esempio quella di un seme portato da una cicogna che cresce dentro la pancia della mamma, e poi riesce a comprendere l’evento nascita in sé. Per avere un’idea ancor più chiara di quanto nell’uomo esista un pensiero più arcaico e mitologico sempre presente, fermiamoci un attimo sul quasi incredibile interesse che le fiabe destano nei bambini. Perché le fiabe toccano tanto i bambini? Una risposta molto esplicativa la troviamo in queste parole di Jung: “I bambini non sono recettivi nei confronti di cose che non li tocchino direttamente. Recepiscono soltanto ciò che li tocca in prima persona. Lasciano semplicemente da parte un gran numero di immagini che non li riguardano, che non hanno nulla da offrire. Per questo le fiabe sono importanti, perché i bambini possono trovare rappresentazioni di contenuti già presenti in loro. La strega, per esempio, esprime un dato psichico ben preciso” (Jung 1936-1941, pag. 144).
Tale forma di pensiero affonda le sue radici nel concetto di inconscio collettivo. Ancora secondo Jung, l’uomo non viene al mondo come una tabula rasa, bensì’ attraverso una struttura psichica che gli permette di percepire e di rappresentarsi la realtà esterna: l’inconscio collettivo è infatti “un patrimonio ereditario di possibilità rappresentative non individuale, ma comune a tutti gli uomini” (Jung 1927-1931, pag. 170). Citazione che può sembrare poco chiara, ma che diviene facilmente comprensibile se paragoniamo tale organismo psichico al corpo. Così come per il corpo, nonostante vari da individuo a individuo, esiste un corpo umano in generale con tratti essenziali presenti in ognuno, allo stesso modo esiste uno strato psichico comune in tutti che ci permette di funzionare in una data maniera. (Jung 1927-1931, pag. 170). Detto in altre parole, un bambino viene già al mondo con una struttura psichica a priori capace di rappresentare, sotto forma di immagini, le categorie “madre”, “padre”, e via discorrendo.
Da quanto detto sino adesso, appare chiaro come le immagini diano un contributo di un certo rilievo nel comprendere la realtà, ma si potrebbe obiettare che questo potrebbe valere solo per i bambini. Un immaginario critico potrebbe chiedere: e le immagini nella vita di un adulto che ruolo hanno? Per rispondere a tale questione, soffermiamoci per un istante sul ruolo di sogni, attività che un uomo svolge con costanza per tutto il corso della vita. Il sogno è l’espressione per eccellenza dell’inconscio, non essendo un qualcosa che facciamo noi, bensì che si presenta a noi, e può essere ben considerato un pensare per immagini. Potremmo chiederci, perché la psiche si da tanto da fare per produrre immagini oniriche? In una prospettiva junghiana possiamo rispondere che le immagini mediano il rapporto tra inconscio e conscio, facendosi portatrici di contenuti psichici che diversamente rimarrebbero fuori dal campo della coscienza. Da questo punto di vista, possiamo dire che le immagini cercano il contatto con la coscienza per ampliare la consapevolezza di se stessi e della realtà circostante. A tal proposito Jung postula l’esistenza di una pulsione ad individuarsi presente in ogni essere umano che trova la sua forza propulsiva in un agente psichico, un archetipo basilare dell’inconscio, un centro ordinatore della psiche definito Sé, che cerca di spingere l’essere umano a divenire più totale, più completo, in un certo senso meno inconscio. Tale agente psichico, il Sé, si serve in primo luogo di sogni, di disegni, di espressioni artistiche che tentano di dare “voce” a noi stessi e a stati psichici di difficile rappresentazione.
In ultima analisi, quindi, un rapporto costante della coscienza con le immagini psichiche permette alla personalità di trovare una maggiore stabilità complessiva, in virtù del fatto che la psiche cerca di raggiungere una condizione di migliore equilibrio attraverso la sua capacità di produrre una rappresentazione della realtà esterna e di se stessa, ovvero sia dei processi psichici. Nel nostro mondo immaginativo è cioé implicita la possibilità di autocorrezione rispetto a se stessi e alla realtà, ed è proprio questa capacità di rappresentazione immaginativa a rendere l’uomo specificatamente uomo e diverso nel suo rapporto con la realtà da ogni altro animale.