La competitività è uno dei tratti più distintivi della nostra società, lo è a tal punto che è possibile scovarla un pochino ovunque: nei bambini delle elementari che sono costantemente valutati, e implicitamente portati al confronto l’uno con l’altro, attraverso voti di giudizio espressi in numeri; in dei ragazzini che si affacciano a qualunque sport, i quali non fanno neanche in tempo ad iniziarlo che già cominciano a partecipare a delle gare; in quei numerosi adolescenti affamati di likes sui social e che per ottenerli paiono essere in eterna competizione con i loro pari; tra aziende che lottano senza esclusione di colpi per avere il maggior numero possibile di recensioni positive su sé stesse; e via dicendo, poiché questi non sono che pochi esempi rintracciabili facilmente nel quotidiano di ognuno.
Talvolta tale competitività, se rimane entro i limiti del non tramutarsi un’ossessione, spinge verso un cercare di far bene, o comunque meglio rispetto a quanto già si sa fare; in tante altre occasioni, in particolare appunto se si avvicina a qualcosa di ossessivo, attiva un’invidia malevola, ovvero quel sentimento legato al desiderare ardentemente quello che un altro ha o rappresenta, o in alternativa, se non lo si può ottenere, a volerlo distruggere. Un vissuto, quello dell’invidia, connaturato da odio, rancore, disprezzo, che non giova per nulla, oltre che alla persona oggetto di invidia, a colei che la sperimenta. Non a caso in ambito artistico – letterario – religioso essa, l’invidia, è stata rappresentata come un qualcosa di velenoso e/o che acceca. Giotto, per esempio, le ha dato forma attraverso una vecchia decrepita con nel mezzo della fronte un serpente che le si rivolgeva contro; Dante nella Divina Commedia ha riservato agli invidiosi un posto nel purgatorio e li ha immaginati con un accecante filo spinato negli occhi; nel Cristianesimo è uno dei sette vizi capitali, mentre nel Buddismo è uno di quei fattori in grado di far germogliare l’odio nel cuore di una persona, rendendola così metaforicamente cieca. In estrema sintesi, l’invidia abbrutisce la persona invidiosa poiché pare annientarne il resto della personalità.
Si dirà che l’invidia è un prezzo da pagare alla competitività, perché in una società come la nostra – se si vuol raggiungere un minimo di posizione sociale – non si può che essere competitivi. Secondo questa visione, l’invidia sarebbe quindi una sorta di inevitabile effetto collaterale del nostro modo di fare a cui non possiamo far altro che abituarci. Tuttavia, a ben vedere, questa visione trascura l’evenienza che la relazione tra competitività e invidia comporta – non che così non le si paghi già un certo prezzo – costi umani ben maggiori rispetto a quanto da essa sostenuto: in realtà, la relazione tra competitività e invidia spesso danneggia anche coloro che occupano i primi posti di una scala sociale, e non solo gli ultimi e gli sconfitti come si potrebbe dedurre dalla visione esposta poc’anzi. E questa circostanza che la relazione tra competitività e invidia arrechi disagio anche in coloro che sembrerebbero i vincitori sociali, merita un approfondimento. Proviamo a farlo attraverso un racconto di Dino Buzzati, “Il musicista invidioso”. Buzzati ce lo presenta così: “Il musicista Augusto Gorgia, uomo invidiossisimo, già al colmo della fama e dell’età, una sera, passeggiando da solo nel quartiere, uscì un suono di pianoforte uscire da un grande basamento. Augusto Gorgia si fermò…di simile non ne aveva mai sentita…fu colpito dal linguaggio, il quale era libero dalle vecchie leggi armoniche, spesso stridulo e arrogante, e nello stesso tempo riusciva ad una massima evidenza…La caratterizzava inoltre un bello slancio, giovanile levità, senza alcuna traccia di fatica.” “Invidiosissimo”, lo definisce lo scrittore-pittore originario di Belluno, nonostante abbia tutto. Dopo questo incipit iniziale, il racconto continua con Augusto Gorgia che non trova pace per questa musica di cui non conosce l’autore, il quale, in men che non si dica, diviene il perno su cui ruotano tutti i suoi pensieri più angoscianti germoglianti dalla sua stessa invidia. Per coglierne meglio lo stato d’animo, lasciamo per un attimo ancora la parola al suo creatore: “A forza di sospetti finiva per avvelenarsi l’esistenza… invecchiando, certi uomini vedono nemici dappertutto. E che aveva da temere poi? Era famoso, rispettato, finanziariamente ben provvisto. Teatri e società di concerti si disputavano le sue composizioni. Di salute non poteva stare meglio. Non aveva mai fatto del male. E allora? Che pericolo poteva minacciarlo? Ma ragionare così non gli bastava.”
Ha tutto il Gorgia ed è sempre più roso dall’invidia, è come se dovesse avere sempre di più e/o rassicurarsi costantemente sul fatto di essere sempre il migliore. Non è felice, né sereno, è perennemente inquieto. Di più, sembra incapace di vivere per eccesso di competitività; lo diviene ancora di più in maniera manifesta nel momento in cui scopre l’identità del pianista misterioso, Max Ribbenz, che al di là del nome di battesimo corrisponde perfettamente a quel “genio che l’umanità aspettava da almeno mezzo secolo, e che non era lui.” Quest’ultima frase breve e penetrante racchiude benissimo il dramma infernale del Gorgia e volendo di tutti coloro che sono catturati da un eccesso di competitività: sempre in gara con qualcuno, reale o immaginario che sia, senza che ci si riesca a godere quanto ottenuto; sempre in balia di un’invidia che può esplodere da un momento all’altro e che fa perdere ogni barlume di lucidità.
Uscendo dalla letteratura si potrà infatti notare come spesso vada così anche nella realtà. Per esempio, se si fa un giro e si prende confidenza con i vari partecipanti di qualunque concorso di poesia o pittura, si potrà facilmente constatare – purtroppo – come sia piuttosto diffusa la cattiva abitudine di parlare in termini negativi degli altri, sia quella di disprezzarne il lavoro. Perché psicologicamente è così? Possiamo rispondere ipotizzando che quell’elevato tasso di competitività capace di risvegliare il tarlo dell’invidia – potenzialmente probabilmente presente in ognuno – rischia di fatto di allontanare una persona da sé stessa, poiché l’allontana dalla propria vocazione. Se riflettiamo meglio sul protagonista del racconto di Buzzati e sui partecipanti dei concorsi letterari e pittorici portati a mò di esempio, non possiamo infatti fare a meno di osservare come essi abbiano completamente perso di vista il motivo o i motivi per cui suonano, o scrivono poesie o dipingono. Sono così distratti dal guardare fuori che non sono più in grado di cogliere il valore e il senso personale profondo di quello che fanno. Da tale angolazione hanno smarrito la bussola e la direzione delle loro esistenze, e questo è un prezzo decisamente troppo elevato da pagare alla competitività.