Sempre più spesso in ambito psicoterapeutico capita di ricevere nel proprio studio persone straniere. Generalmente si tratta di immigrati che, vivendo ormai da un certo tempo in Italia, si interrogano sulla loro appartenenza, sulla qualità dei loro legami, in una sola parola sulla propria “identità”. Spesso la decisione di rivolgersi ad un terapeuta coincide con qualche evento, per così dire scatenante, che porta in primo piano il tema dell’identità personale. Qualche insuccesso lavorativo, qualche episodio di razzismo più o meno strisciante, portano ad interrogarsi, o rinterrogarsi, sulla propria scelta migratoria, avvenuta inizialmente, nella maggior parte delle occasioni, per ragioni economiche. Molte persone immigrate tendono a risolvere la “questione identitaria” attraverso due modalità: o in qualche modo scelgono consapevolmente di rimanere straniere, nel senso di estranee, rispetto al paese in cui si trovano, senza aver voglia di mescolarsi con una differente cultura; oppure adottano in maniera eccessiva gli usi, i costumi, e le convenzioni del paese ospitante. La prima modalità descritta è ben visibile in alcune comunità di immigrati, si pensi per esempio ai cinesi, i quali tendenzialmente fanno gruppo a sé, riproducendo la loro cultura in un paese diverso. Oppure è osservabile in alcune persone di cultura musulmana che evitano di contaminarsi con forme di pensiero più occidentali, mantenendo inalterato il modo di intendere i rapporti, per esempio marito-moglie o genitore-figlio, prescritto dalla cultura di origine. La seconda modalità di “integrazione” con il nuovo paese è rintracciabile in quegli immigrati che paiono, sia permessa l’espressione, più realisti del re, cioè che aderiscono incondizionatamente alle abitudini, agli stili di vita, ai modi di pensare, del paese ospitante. Sono quegli immigrati che paradossalmente, per fare degli esempi un po’ estremi, diventano razzisti con altri stranieri, o che tendono a non esprimersi più nella lingua madre, o che rarissimamente o mai tornano nel paese d’origine. In sintesi, sono quegli immigrati che sembrano, più o meno consapevolmente, impegnati in una continua opera di negazione delle loro origini. In questo breve articolo, che ovviamente non ha nessuna pretesa esaustiva sull’argomento, non si vuole discutere della bontà o meno di queste “strategie” per vivere nel paese in cui si è arrivati, ma si vuol dedicare attenzione a quelle persone per cui nessuna di queste due modalità di adattamento risulta essere personalmente soddisfacente. In altre parole, ci si vuole occupare di quelle persone che non vogliono sentirsi perennemente degli stranieri nella nuova casa, ma che, giustamente verrebbe da aggiungere, non possono ottenere questo risultato al prezzo di un’amputazione di una parte della propria storia e di se stessi. Sostanzialmente, si tratta di quelle persone immigrate per cui l’integrazione deve basarsi su un’elaborazione psicologica più profonda. A tal proposito Sayad, nel suo libro “La Doppia Assenza”, sottolinea come questa tipologia di persone immigrate ad un certo punto si trova a vivere un senso di non appartenenza sia rispetto al paese d’origine, sia rispetto al paese accogliente. Tornare a casa sarebbe avvertito come privo di senso, passati molti anni infatti i legami affettivi e le possibilità lavorative non sono state coltivate, in qualche modo si avverte che il tutto come un regredire ad una condizione esistenziale non più attuale. Rimanere nel paese in cui si è arrivati, ma continuando a percepirsi sempre un pochino cittadini di serie B, a lungo andare è stancante e sfibrante. E’ come se la persona si trovasse in una condizione psichica di doppia separazione, dove avverte intuitivamente che non si può essere quello che si era in passato, ma allo stesso tempo è come se sentisse di non avere piena cittadinanza e progettualità nel paese dove è approdata.
In tale situazione esistenziale, molti immigrati raccontano in seduta il sentirsi letteralmente spaesati, con un senso di pesantezza quotidiano legato per lo più al sentirsi soli. In questo terreno psichico possono germogliare disagi e sintomi psichici. I più comuni tra queste persone sono qualche forma di dipendenza, legata all’alcool, al sesso o al giocare, e forme più o meno intense di depressione. Anche se in moltissime occasioni, fortunatamente, il tutto non sfocia in un disturbo psicopatologico strutturato, rimane un malessere di fondo con il quale fare i conti.
Questa situazione di crisi, come molte altri momenti di crisi, da un punto di vista psicologico può costituire anche un’occasione. Questo trovarsi nella terra di nessuno, questo sentirsi stranieri ovunque, offre paradossalmente l’opportunità di cogliere meglio la propria unica, irrepetibile individualità. Se si riesce a reggere la tensione che comporta questo stato di solitudine, si può trasformare la condizione di straniero in una fonte di crescita perché questo fa vedere meglio sia la propria parte di identità legata al paese d’origine, sia la parte di identità legata al secondo paese. E’ l’occasione per vedere passato, presente e futuro da un’angolazione diversa. “Inquietante”, ha scritto Sigmund Freud, “è l’accesso all’antica patria dell’uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora.” Inquietante è cioè non ciò che è imprevedibile, ma il ritorno a quel paesaggio originario, a quella protezione originaria, da cui ci siamo allontanati ma che ha permesso la scoperta di altri aspetti di sé. In terapia, spesso, quando la persona diventa consapevole di qualcosa del genere, improvvisamente capisce perché non vuol tornare nel paese d’origine: ha sempre un rapporto affettivo con le origini, ma sente che il viaggio migratorio, questa esperienza pluriennale, è stata trasformativa tal punto che il tornare non sarebbe l’equivalente del tornare, psicologicamente parlando, a casa, perché quella dimensione non può essere più la propria casa. Già il compiere questo passaggio restituisce serenità alla persona immigrata, perché viene meno quella fantasia più o meno latente, presente in tutti gli immigrati, di un ritorno, dal sapore quasi mitico, alle origini. Rimane il problema del presente e del futuro nel paese di approdo, terra che comunque non si avverte propria al 100%. Un percorso terapeutico non può cambiare la quantità di senso di appartenenza, ma può far divenire consapevoli del fatto che la diversità legata all’essere stranieri può essere una ricchezza che può permetterci di conoscerci meglio. Ha scritto Marina Garneri in un numero della rivista “Ombra” dedicata al tema “Identità e Alterità”: “Questa consapevolezza della diversità è fondante dell’identità: non possiamo essere noi stessi senza riconoscere la nostra differenza dall’altro.” Può apparire una banalità affermare che la diversità fonda l’identità, ma la persona immigrata sembra dimenticarsene con una certa frequenza. Non è necessariamente un dramma essere diversi dagli altri, anzi. Perché, per esempio, una relazione non può che essere tra diversi, un dialogo autentico non può che essere l’incontro tra due intelligenze diverse. Perché diverso non significa né peggiore, né migliore, ma semplicemente diverso. Ha scritto Carl Gustav Jung in “Ricordi, Sogni, Riflessioni”: “ Non cerco mai di convertire i miei pazienti a qualcosa, e non esercito mai alcuna pressione. A me interessa soprattutto che il paziente possa realizzare la sua personale visione delle cose.” Ed è proprio quella che Jung chiama “la realizzazione personale della visione delle cose” che può costituire un buonissimo antidoto al sentirsi sempre stranieri: perché in tal modo si può essere stranieri per gli altri, ma non stranieri a se stessi.