“Ora che si sono create le premesse per una coscienza psicologica più evoluta, il vero problema sarà saper essere degnamente inconsci.” Così Carl Gustav Jung in risposta ad una domanda di un gruppo di giovani studiosi di psicologia curiosi di sapere cosa, a suo parere, potesse costituire un tema psicologico centrale per la generazione attuale e per quelle future. Affermazione forte, con un che di paradossale se si considera come l’uomo abbia impiegato secoli per uscire da una certa coltre di inconsapevolezza, e che proprio per questo merita di essere approfondita più da vicino. E per farlo dobbiamo partire proprio da alcune osservazioni dello stesso Jung sulla coscienza.
La coscienza per l’analista svizzero ha sempre svolto un ruolo basilare per l’umanizzazione dell’uomo, tuttavia nella sua amplissima e strutturata analisi ne coglie e ne evidenzia anche i possibili limiti. Nella sua biografia, questo per sottolineare quanto la ritenesse importante, si spinge addirittura a considerarla “il secondo creatore del mondo” perché – osserva – è solo grazie alla sua sensibilità percettiva che ci si rende pienamente conto di come qualcosa, per esempio la bellezza naturale che ci circonda, esista veramente. Più in generale ritiene la coscienza quella “lanterna” che evita di perdersi e di smarrirsi nei momenti più caotici dell’esistenza, al contempo, però, ne mostra anche l’intrinseca tendenza a peccare di Hybris che la induce sia a ragionare in termini esclusivamente utilitaristici, sia ad erigersi a dominus dell’intera vita psichica. In altre parole, una coscienza sviluppata secondo Jung corre il pericolo di volersi elevare sempre di più, rischiando così di cadere in un’arida pietrificazione della vita psichica. “Lo sbaglio peggiore – afferma Jung nel seminario sulle “Visioni” – è quello di tentare di salire sempre di più”, intendendo con ciò un salire continuo nel quale la coscienza cade vittima della sua illusione di poter spiegare tutto, di sapere ogni cosa, di essere in diritto di possedere ogni cosa, finendo così con il creare uno spaventoso vuoto di umanità. Questo punto di vista potrebbe sembrare eccessivo, ma se solo già guardiamo al dilagante narcisismo presente in ogni aspetto della vita sociale capiamo anche intuitivamente quanto la coscienza possa anche tirare brutti scherzi all’uomo.
Limitando comunque il discorso a soli aspetti psicologici, e tralasciando considerazioni di stampo più sociologico, la presenza eccessiva della coscienza, anche laddove non si potrebbe assolutamente parlare di narcisismo, rischia di incidere negativamente su alcune delle esperienze più significative dell’uomo. Prendiamo quanto accade, non di rado, nelle situazioni sentimentali. Soprattutto quando si è più grandi, quando si ha già qualche precedente delusione sulle spalle, quando qualche ferita è ancora aperta, si vuol sapere come andrà, cosa accadrà. Dopo i primi incontri o forse fin dall’inizio, le due persone, spesso, è come se si studiassero, come se fossero sempre vigili a scrutare segnali: “se non ha risposto dopo tot ore vuol dire questo…”; “se non si è fatta sentire qualcosa cova…”, e via dicendo, sono frasi che a studio si odono di frequente. Testimoniano la tendenza ad ipotizzare, a prevedere scenari, a ricercare la strategia adatta, da cui viene catturata la coscienza e che rischiano di farle sopravvalutare le sue capacità previsionali e abilità nell’evitare rotture e possibili momenti difficili. Per esempio, le persone si soffermano moltissimo nel trovare la risposta giusta e/o l’atteggiamento giusto per mandare avanti la relazione in questione. Altre volte, invece, capita di notare come i partner discutano moltissimo, per ore, per giorni, per settimane, dello status della loro relazione: “Siamo fidanzati oppure no?”; Stiamo insieme o ci stiamo solo frequentando?”, come se una definizione condivisa di quel che è potesse mettere al riparo e garantire un futuro tranquillo che non ripeta quanto accaduto in storie precedenti.
Tutte strategie e domande più che legittime, e umanamente comprensibilissime, perché contengono il desiderio di voler evitare sofferenze e dolori già vissuti attraverso un sapere cosa si ha davanti. Tuttavia, in questo contesto, non possiamo esimerci dal chiederci come tutto questo lavorio mentale della coscienza incida sulla relazione stessa. Possiamo subito dire che il grande pericolo è che tutto ciò, considerato che è molto faticoso e alla lunga sfibrante, possa togliere naturalezza e freschezza all’esperienza del qui e ora. In altre parole, c’è la possibilità concreta che si passi più tempo a parlare della relazione anziché a viverla e a capirla standoci dentro, finendo così con lo spegnerla. In tal senso, l’eccesso di coscienza pietrifica. Questa coscienza così ingombrante e presente, volendo, la si vede all’opera anche in altre situazioni psicologicamente delicate. Pensiamo ad una donna in gravidanza. Attualmente molte gravidanze avvengono intorno ai 40 anni e tale età suscita quasi sempre dei timori e delle paure sulla salute del nascituro. Anche qui siamo dinanzi ad un timore giustificabilissimo, a cui la coscienza potrebbe rispondere poggiando solo e soltanto sulle sue strategie e sulle sue analisi. La donna in questione potrebbe allora, per tenere a bada il timore che il bimbo/la bimba possa avere qualche patologia, fare mille esami, visite, leggere pagine e pagine su gravidanze a rischio, finendo così con il concentrarsi sull’aspetto medico della gravidanza a discapito di una serie di pensieri – sensazioni – fantasie che potrebbero accompagnare diversamente i nove mesi. Mesi in cui si potrebbe perdere qualcosa, forse il lato più psicologico e meno medico, di quella dolce attesa. Anche in questa circostanza la troppa coscienza, come nel caso delle relazioni amorose, potrebbe amputare una parte di una delle esperienze più significative nella vita di una donna e di una coppia.
In sintesi, è come se dovessimo, compito impegnativo per chiunque, sostare in maniera diversa dentro le esperienze. Facile a dirsi, meno a farsi. Lo stesso Jung, dopo aver riflettuto su una coscienza troppo autosufficiente, ci indica una possibilità in tal senso. La coscienza, argomenta questo grandissimo studioso, deve avere la capacità anche di saper rinunciare al suo ruolo di guida. Storicamente essa nasce dall’inconscio, e una volta cresciuta dovrebbe non solo avere l’umiltà di non staccarsi da esso, bensì dovrebbe cercare di conservare sempre un legame con tale sorgente psichica, perché in ultima istanza è lo stesso inconscio a promuovere lo sviluppo della coscienza. Nel già citato seminario sulle “Visioni”, l’analista zurighese osserva: “Da un lato l’inconscio non è altro che natura, e dall’altro è il superamento della natura; è un “sì” e un “no” in sé, è due cose in una”. Ergo, è l’inconscio stesso che vuole, quando i tempi sono maturi, andare oltre la natura e promuovere un’ulteriore differenziazione della coscienza. Da questa prospettiva, pare emblematica la figura del Santo. In “Passio Perpetuae”, Marie-Louise Von Franz, strettissima collaboratrice di Jung, analizza i sogni e le visioni di Santa Perpetua, giovane donna romana vissuta nella Cartagine del III secolo d.c., e mostra chiaramente come fossero delle figure con tratti pagani a promuovere uno sviluppo della coscienza verso l’alto. In quel periodo, in brutale sintesi il pensiero di Von Franz e Jung, l’uomo era per alcuni versi troppo preda delle sue pulsioni ed è stato l’inconscio stesso ad auspicare una coscienza più evoluta, perché tale passaggio corrispondeva a delle esigenze psichiche profonde sia individuali che collettive di quel tempo. Ciò è interessantissimo perché dimostra come sia l’inconscio stesso, attraverso sogni a visioni, a ricercare un’evoluzione della condizione umana. E ciò in effetti è esattamente quanto possiamo notare, se si osserva con attenzione, nello sviluppo di ogni bambino. Pensiamo per un momento alla relazione che ha un infante con i suoi genitori. L’infante non sa parlare, comincerà a formulare delle frasi molto elementari solo intorno ai due anni e di fatto non sa nulla del mondo. Nonostante queste premesse, costruisce una relazione con i suoi genitori e con il mondo. Se si guarda bene, la relazione con i genitori non è una relazione che nasce dalla coscienza. Fin da piccolissimo, prima ancora che guardi la televisione o ascolti fiabe, “attribuisce” delle immagini ai genitori: la mamma può essere di volta in volta la fata buona, la strega, la dea; il papà un eroe, un dio, o altro ancora. Dove ha preso queste immagini che guidano la sua relazione con i suoi caregivers? Sicuramente non dall’esterno, provengono da una sorgente sconosciuta, inconscia, della psiche. E l’inconscio che lo spinge, con le sue immagini, a relazionarsi agli altri e di conseguenza a promuovere una coscienza di sé e di quanto circonda. Nulla quanto il bambino dell’uomo dimostra quanto la coscienza poggi su una base inconscia.
Con tale base, l’uomo, se vuol evitare di rimanere vittima dei pericolosi eccessi in cui la coscienza da sola rischia di affogare, è necessario che continui a confrontarsi anche quando è ormai lontano dall’infanzia. A livello pratico, ciò lo si può fare attraverso il lavoro sui sogni. Il sogno scaturisce da quella sorgente psichica di cui parlavamo poc’anzi, esso è un preziosissimo prodotto psichico che non nasce dalla coscienza e che agisce come uno specchio interno che, con il suo linguaggio metaforico e simbolico, tenta di dire qualcosa sul sognatore e/o talvolta su una certa situazione. Per esempio, con una certa frequenza in ambito terapeutico si osserva come persone paralizzate dalla troppa coscienza sognino acqua. O di immergersi in acqua. Un pochino come se il sogno suggerisse di lasciarsi andare, di rilassarsi, di essere più fluidi e meno granitici. Immagini del genere, se le caliamo sugli esempi avanzati in precedenza, non vogliono dire che tutto andrà bene o che le preoccupazioni coscienti siano superflue, bensì cercano di restituire al sognatore qualcosa circa il suo atteggiamento. Marie-Louise Von Franz, che nel corso della sua vita ha avuto modo di studiare e analizzare oltre 70000 sogni, a tal proposito osserva: “I sogni non sono in grado di preservarci dalle vicissitudini esistenziali, dalle malattie e dagli eventi tristi. Ci offrono, invece, una linea di condotta sul come rapportarci a questi eventi, sul come dare senso alla nostra esistenza, sul come realizzare il nostro destino, sul come seguire la nostra stella: in definitiva, sul come realizzare dentro di noi il massimo potenziale di vita.” Perché – continua ancora la Von Franz – il sogno, spingendo il sognatore a riflettere su sé stesso, è come se volesse portarlo il più vicino possibile a quello che potrebbe essere considerato il suo unico e personale “stile di vita ottimale.” In altre parole, è come se il sogno, l’inconscio, cercasse sempre, non solo con il bambino bensì anche con l’uomo adulto, di favorire un’evoluzione della coscienza verso una direzione che tenga però sempre pienamente in considerazione, cosa che la coscienza lasciata a sé non riesce a fare, la specificità di un determinato singolo individuo. Se ci si ferma un attimo a pensare, riveliamo infatti con facilità come il sogno sia qualcosa di unico. Non si troveranno mai due sogni perfettamente uguali in persone diverse, e già solo questo dato ci suggerisce come essi possano essere preziosi per ogni sognatore e quindi per ogni uomo.
Naturalmente poi, tornando sui nostri sogni acquatici, potremmo osservare come l’acqua di un fiume sia molto più fluida di quella di un lago, così come quella del mare sia a sua volta è diversa da entrambe, ma non è questa la sede per dilungarsi su queste differenze. Qui, in questo contesto, è sufficiente sottolineare come in linea generale tali immagini oniriche acquatiche invitino sia ad essere più aperti (l’acqua indubbiamente fa pensare alla vita), sia a reggere quell’incertezza legata al prendere atto che non tutto dipende da noi (in acqua è l’acqua che sostiene la persona). Da questo punto di vista tali sogni dicono qualcosa al sognatore. Talvolta si ricava l’impressione che tali sogni abbiano fiducia nel fatto che quelle esperienze, anche al di là di come andranno, avranno qualcosa di significativo e di sensato. E’ un pochino come se alcuni immagini suggerissero alla coscienza che le osserva di essere meno spaventata da quel che essa stessa ipotizza potrebbe accadere, sia perché in qualche modo ci saranno gli strumenti coscienti e inconsci per poter elaborare tutto, sia perché quelle esperienze potrebbero rientrare nel più generale fluire della vita. Fluire, se si osserva bene, che ha il grande merito di evitare pietrificazione. E già questo restituisce vitalità e freschezza a situazioni che altrimenti rischiano di trasformarsi in pesanti pantani.