Nel corso del Seminario sulle “Visioni” di Christiana Morgan Carl Gustav Jung afferma che “tutto quello che fa un uomo, tutti i suoi tentativi, sono la sua individuazione: è un compimento la realizzazione delle sue possibilità; una delle sue massime possibilità è il conseguimento della coscienza. Questo lo rende veramente uomo: per l’uomo, la vita deve essere conscia.” (C.G. Jung, 1930-1934, Vol. 2°, pag. 822). Con coerenza a questo modo di intendere l’esistenza, egli per tutta la vita, con la genialità e l’umiltà che solo i grandissimi possiedono, si è mosso in questa direzione.
Se guardiamo sia la biografia personale di Jung, sia alcuni suoi scritti di carattere più teorico sulla coscienza, ciò diviene subito evidente. Nella sua vicenda esistenziale la coscienza è prima quella modesta lanterna accesa contro vento che resiste al buio totale, poi quell’elemento che diviene “il secondo creatore del mondo” (C.G. Jung, 1961, pag. 306), ovvero quel fattore che permette al mondo di avere un’esistenza obiettiva. Mentre dal punto di vista teorico notiamo che in “Risposta a Giobbe” (1952), uno dei testi che egli aveva più a cuore, la coscienza funziona come un piccolo specchio di cui l’uomo è dotato che aiuta la divinità stessa ad evolversi. Senza dilungarsi troppo, forse dal punto di vista teorico è sufficiente ricordare come già decenni prima di pubblicare “Risposta a Giobbe” egli avesse dedicato uno studio amplissimo alla coscienza, “Tipi Psicologici” (1921), nel quale ne analizzava minuziosamente le sue varie funzioni orientative e i suoi stili conoscitivi.
Nonostante ciò, non dimentica mai di rimarcare anche la possibile pericolosità della coscienza stessa legata al suo tendere verso un peccare di Hybris (1955). Anzi, più esattamente, ritiene l’Hybris e l’eccesso di razionalità due aspetti a tal punto critici per l’uomo moderno dà considerarli un potenziale trampolino verso una condizione psichica inflazionata nella quale non si dispone né di una base istintuale, né di una terra psichica sulla quale poggiare. Un uomo, in altre parole, titanico che corre il rischio di cadere vittima di sé stesso. Pensando a Nietzsche, autore che per l’analista svizzero era stato affascinante ma che allo stesso tempo considerava emblema di un disorientamento collettivo del XX secolo, nel corso del già citato seminario sulle “Visioni” dirà: “Per noi lo sbaglio peggiore è quello di tentare di salire sempre di più” (C.G. Jung, 1930-1934, Vol.1°, pag. 652). In altre parole, salendo sempre di più inevitabilmente si finisce con l’essere così distanti dalla Terra che ad un certo punto non è più possibile non percepire il sottostante Vuoto abissale. Questo errore legato al voler salire sempre più, secondo Jung, è talmente cruciale per l’uomo contemporaneo da indurlo a ritenere che il guardare sopra e non sotto fosse il problema psicologico, o spirituale se si preferisce, del nostro periodo storico con il quale tutti non possiamo fare a meno di confrontarci.
Tale problema del nostro tempo, e Jung si mostra costantemente consapevole di ciò, tuttavia non è per nulla facile da affrontare perché impone di misurarsi con una caratteristica che pare intrinseca alla coscienza: il suo essere, per ricorrere ad un aggettivo usato da Marie-Louise Von Franz, “predatoria.” (M.L. Von Franz, 1987, pag. 64). E questo ci conduce dentro la paradossalità del problema: ciò che ci rende più umani e specifici rispetto ad altri animali, la coscienza, è anche il nostro possibile inceneritore di vita e vitalità, o attraverso la sua volontà di potenza, o attraverso il suo rinnegare ogni affetto e ogni aspetto di socialità animalesca presente nell’uomo.
Non a caso il Vuoto, sia pur sotto sembianze diverse, è piuttosto presente in psicopatologia. In alcune forme di narcisismo, per esempio, le idee di grandezza, il voler avere, il voler ostentare, il voler fornire un’immagine di sé grandiosa, paiono dei tentativi per coprire il Vuoto che la persona percepisce e da cui cerca di difendersi in tutti i modi. Nella depressione invece è qualunque cosa ad apparire vuota, ad aver perso di significato. Ogni aspetto dell’esistenza è sentito come vuoto e incapace di scuotere l’anima dal suo stato di torpore. Nell’anoressia il corpo pare una forma quasi vuota, volta a svuotare e ad allontanare la persona dai suoi desideri. Nella psicosi, infine, il vuoto sembra in stretta connessione con la morte, infatti non è raro sentire dire ad un paziente psicotico che egli sente sé stesso e gli altri morti. Probabilmente nella psicosi il vuoto diviene un Vuoto così grande da generare spesso un’angoscia terrificante, anche solo difficile da immaginare.
In questo articolo più che soffermarci sulla possibile psicoterapia o per il vuoto narcisistico, o per quello depressivo, o per quello anoressico, o per quello psicotico, o per altri ancora non menzionati, vorremmo fermarci a vedere come il vuoto, prima di mostrarsi in maniera clinica ed eclatante, sia preceduto dalla malinconia, come se quest’ultima fosse una spia di possibile tendenza al vuoto. E l’avere un buon rapporto, con la malinconia, come meglio vedremo a breve, è già una forma di terapia del Vuoto.
E adesso dovremmo provare a definire la malinconia. Tuttavia ciò non è per nulla facile perché essa è uno stato d’animo sfuggente, forse più che uno stato d’animo può essere considerata una sensazione dell’animo. Mentre la nostalgia, per esempio, si lega ad un passato specifico al quale si vorrebbe tornare per ritrovare il benessere delle origini, la malinconia non è così specifica. Spesso sembra in relazione con l’essere consapevoli di un bellissimo presente che inevitabilmente non ci sarà più. La malinconia, osserva Giulio Ferroni in relazione ai limiti, è connessa al perdere qualcosa: qualunque artista, scrittore-pittore-scultore-ect.., nel momento in cui termina la sua opera avverte anche un quantum di malinconia perché la sua creatività, almeno per il momento, è esaurita. Anche Freud pone la malinconia, o meglio nel suo caso la melanconia, alla perdita. Nel lutto – diceva Freud a ragione – non si perde solo l’Altro, ma perdiamo anche qualcosa di noi in relazione all’Altro.
Il tema della perdita sembra quindi intimamente legato alla malinconia, solo che in molte occasioni tale perdita non è così specifica e ben definibile come nel caso della creatività, come rileva Ferroni, o come nel caso del lutto come evidenziava Freud. Spesso è una perdita più generica, poco afferrabile perché in tante occasioni somiglia ad una perdita dell’onnipotenza, o meglio ancora ad una perdita della nostra grandezza in relazione al fatto che posti davanti al mistero dell’esistenza siamo tutti piccoli. E per questo un po’ malinconici.
In alcuni quadri di Giovanni Bellini, in cui è centrale il tema della maternità, ciò è lampante: nello sguardo e sul volto della Madre c’è già la triste certezza che quel momento così tenero e intimo con il suo Bambino non ci sarà più.
(“La Madonna con il Bambino” di Giovanni Bellini)
In questo quadro del Bellini, e ciò potrebbe valere per tanti altri soggetti dello stesso autore e/o per il lavoro di tanti altri suoi colleghi, bellezza e tristezza si fondono in un amalgama che risulta struggente e capace soprattutto di “contagiare” l’animo umano di una velata malinconia.
Ciò che può fare la differenza in positivo dinanzi a tale malinconica condizione di inevitabile perdita, perché essa di fatto “costringe” a toccare con mano la nostra transitorietà esistenziale, i nostri limiti, quelli altrui, quelli della vita, è dato dallo spirito con cui la coscienza umana riesce ad accettare tutto ciò.
Alcune volte tale essere piccoli, tale essere limitati è vissuto come un peso insopportabile, altre volte come una condizione che agisce come una musa ispiratrice. La prima possibilità, tornando ancora in ambito artistico, la troviamo in alcuni quadri del primo Munch che descrivono proprio la difficoltà dell’uomo contemporaneo nel rapportarsi a qualcosa di più grande e misterioso come può esserlo la Natura. Nel suo dipinto più celebre, “L’Urlo, che trae origine da un’esperienza personale [1] simile concretamente vissuta dal pittore norvegese, si vede un uomo che si copre le orecchie perché sente un grido della Natura che non è tollerabile. E’ un richiamo straziante, vissuto come troppo angoscioso e doloroso per Munch e più in generale per la coscienza umana. Si potrebbe obiettare che l’opera in questione di Munch può essere letta come dovuta alla sua biografia personale [2] caratterizzata dai lutti precoci e dolorosissimi di madre e sorella, tuttavia se rimaniamo fedeli all’immagine del quadro è la Natura a ribellarsi e a grondare sangue, non la figura umana. E’ la Natura a gridare, ad essere furente, eppure è l’uomo a non ascoltare questo richiamo così viscerale che vuol forse segnalare una perdita, forse la perdita per eccellenza: la perdita delle radici, del far parte di qualcosa, la perdita del senso di appartenenza, la perdita del senso della propria misura. Influenzato, come altri artisti del periodo, dalle idee wagneriane di “arte totale” secondo le quali l’arte è una forma di religione moderna che trasformava pittori-scultori – musicisti in missionari investiti del sacro compito di salvare l’umanità, Munch scrive nel suo diario: “La gente dovrebbe riuscire a capire la maestà e la sacralità che si trova nei dipinti e dovrebbe togliersi il cappello come se fosse in una chiesa.” Così facendo, tuttavia, eleva a tal punto sé stesso e l’uomo moderno da non poter non rimanere vittima di una condizione così inflazionata, e per alcuni versi disumana, perché in tale posizione si finisce con il perdere una visione equilibrata dell’uomo in relazione al mondo.
Probabilmente è per questo ritenersi titanici, che di riflesso rende incapaci di ascoltare e di stabilire una relazione con qualcosa di più grande, che la malinconia in Munch, ma ciò potrebbe valere per chiunque di noi, assume una forma negativa. In un quadro realizzato più o meno nello stesso periodo de “L’Urlo”, intitolato non a caso “Malinconia,” si vede un uomo dare le spalle a questo qualcosa di più grande, nel caso specifico il mare, che in maniera evidente non riesce a trovare e a beneficiare di una buona relazione psicologica con quanto la circonda. In un altro quadro, chiamato “Malinconia – Ragazza che Piange sulla Spiaggia” del 1907, quindi ancora nel pieno di anni difficili per Munch, si vede una ragazza che nella parte bassa del corpo, gambe e ginocchia, non è così diversa dai massi pesanti che la circondano, quasi a sottolineare la capacità pietrificante della malinconia.
Scrive Carl Gustav Jung ne “Il Seminario sui Sogni dei Bambini”: “Non si può trasformare niente che prima non sia stato accettato” (C.G. Jung, 1936-1941, pag. 235).
Solo un qualcosa che si accetta può cambiare, e ciò a ben vedere vale anche per la malinconia, o meglio per il dolore di essere piccoli e limitati e transitori che la malinconia si trascina dietro. Riuscirci rende la malinconia “un’aspra dolcezza” per usare le parole di John Keats, e soprattutto apre le porte ad una creatività feconda che John Milton descrive con queste parole: “Salve a te, o dea saggia e santa,/salve, assai divina Malinconia,/ il cui sacro volto troppo risplende/ per esser percepito dall’umana vista;/ perciò nella nostra debole visione/esso si vela di nero, tinta severa della Saggezza.”
Questa malinconia creativa la troviamo nel secondo Munch, il quale ha ritrovato stabilità ed equilibrio dopo i vari ricoveri avvenuti nei primi anni del Novecento dovuti ai suoi crolli psicologici legati al bere, alla tumultuosa relazione con Tulla Larsen, al riuscire a vedersi solo come un’artista inquieto, al voler ottenere maggiori riconoscimenti per la sua arte [3]. Dopo aver toccato il fondo, dopo essere stato ricoverato per otto mesi nel 1908, dopo essere caduto nel Vuoto potremmo dire noi, Munch si è rialzato. Ha capito che non poteva continuare in un certo modo, che non poteva continuare ad autodistruggersi, ed è iniziato un periodo di maggiore pacifica introversione nella sua vita. Appena uscito di ospedale decide di acquistare una tenuta a Kragero, e poi negli successivi si trasferisce in un posto ancora più tranquillo e silenzioso, Ekely, dovrà vivrà fino alla fine dei suoi giorni. Immerso nel silenzio della natura, ma senza mai perdere il contatto con il mondo e con gli ambienti artistici, la malinconia di Munch, la disperazione che aveva descritto in tante sue opere, diviene pace interiore. Come mai? Cosa può essere successo? Probabilmente accetta il suo dolore di non essere così grande e maestoso come immaginava, attribuisce meno importanza al successo, e infine soffre meno per il fatto di non riuscire ad ottenere alcune commissioni pubbliche norvegesi. In termini maggiormente psicologici, sacrifica una visione grandiosa di sé ed evita di cadere nel Vuoto abissale creato dalla coscienza di cui parlavamo all’inizio dell’articolo. E ciò cambia il suo lavoro. Un quadro che è circa un 4 metri per otto del 1910, “Il Sole”, mostra appunto un sole che irradia tutto e che conferisce calore e vitalità.
E’ un quadro che più di altri segnala un nuovo Munch, un Munch che anziché essere ripiegato e concentrato sulla sua egoica disperazione in qualche modo ha cercato di stabilire un contatto, come egli scrive, con delle “eterne forze universali.” Se pochi anni prima aveva scritto a Tulla Larsen di aver sempre vissuto “un’esistenza nella quale non esiste una sola cosa che somigli alla felicità, e che addirittura non osa aspirare alla felicità”, ora afferma che “le molecole che compongono la mia anima cominciano a pacificarsi.” Un cambiamento enorme perché avendo egli recuperato un rapporto con il mondo, o meglio con la natura, non soffrirà più di solitudine e disperazione. Per esempio, nella sua campagna di Ekely si farà costruire delle tettoie per dipingere sempre all’aperto e per lasciare le sue opere esposte alle intemperie perché, come sostiene l’artista norvegese, voleva che fossero partecipi del corso della natura e che fossero destinate a subire, al pari dell’uomo, un processo di invecchiamento biologico.
Così in un Munch che ha ritrovato un rapporto con la Natura, la malinconia diviene una sensazione piacevole, una carezza affettuosa, diviene una voce di cui non può fare a meno, perché essa l’aiuta finalmente a scorgere il senso della sua vita, e anche se ciò lo costringe a tornare spesso – come scrive con lucidità l’artista norvegese – “sul ciglio del precipizio” nel corso degli anni, lo pone anche nella condizione di poter conferire la giusta pienezza alla sua stessa esistenza.
Forse avere un buon rapporto con la malinconia significa proprio questo saper stare sul precipizio senza cadervi dentro, in modo che essa possa svelare qualcosa a sé e agli altri. Come scrive un Munch sessantaseienne nel 1929: “Attraverso la mia arte ho cercato di vedere chiaro nella mia relazione con il mondo. Può anche essere chiamato egoismo. Tuttavia, ho sempre pensato e sentito che la mia arte poteva aiutare gli altri sulla via della ricerca e della verità.”
E noi non possiamo far altro che ringraziare Edvard Munch per averci mostrato come la malinconia possa anche divenire una forma di sensibilità acuta che redime dal Vuoto.
[1] Nelle pagine del suo diario l’artista scandinavo scrive: “Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando”.
[2] Altri quadri dell’artista norvegese sono più in stretto collegamento con vicende della sua vita, per esempio quando disegna “La Bambina Malata”, o più in generale quando si dedica a figure realmente esistenti della sua vita.
[3] In effetti, soprattutto in Norvegia, riconoscimenti importanti sono arrivati piuttosto tardi per Munch.