Una certa quantità di amor proprio è non solo normale, ma per certi versi anche auspicabile. Capire quando questo amor proprio si trasforma in narcisismo patologico non è assolutamente facile. Per diverse ragioni. In primo luogo alcuni comportamenti, osservati in certe persone, possono avvicinarsi decisamente a forme di narcisismo patologico, mentre in altre persone lo stesso comportamento pare molo più prossimo ad un sano narcisismo. Immaginiamo per esempio un sedicenne che passa un’ora davanti allo specchio per sistemarsi i capelli: più o meno tutti tenderemmo a guardarlo bonariamente e a giudicare tale vanità congrua con l’età. Se adesso osserviamo la stessa scena, ma con un trentacinquenne per protagonista, resteremmo sconcertati da questo eccessivo investimento psichico su di sé. Questo esempio testimonia come sia difficile parlare di narcisismo patologico in termini assoluti, perché nel parlare di narcisismo non si può fare a meno di considerare la fase evolutiva in cui si trova una determinata persona.
In secondo luogo come hanno fatto notare diversi autori, quali Lasch (1979) e Rinsley (1986), noi viviamo in una cultura narcisistica. La nostra è la società dell’immagine e spesso si tende a pensare che il consumo di beni materiali sia la via verso la felicità. La vecchiaia e la morte sembrano banditi dal discorso pubblico, non a caso i chirurghi plastici navigano nell’oro. I media propongono, più o meno consapevolmente, come valori per eccellenza la bellezza, il successo, il denaro e il potere. In aggiunta, inoltre, senza badare troppo al come il tutto viene raggiunto. Visto questo ambiente culturale, afferma Gabbard che “è spesso problematico determinare quali tratti indichino un disturbo di personalità narcisistico e quali tratti siano dei semplici adattamenti culturali” (Gabbard, 1995, pag. 468).
Considerato tutto ciò, le differenze evolutive, le influenze culturali, come possiamo differenziare un narcisismo sano da uno patologico?
A tal proposito è molto utile ricorrere al mito per cogliere l’essenza del narcisismo. Nelle “Metamorfosi” Ovidio ci narra la storia di Narciso. Nel racconto, Eco, una ninfa dei monti, si innamorò di un giovane vanitoso di nome Narciso, figlio di Cefiso, una divinità fluviale, e della ninfa Liriope. Cefiso aveva circondato Liriope con i suoi corsi d’acqua e, così intrappolata, aveva sedotto la ninfa che diede alla luce un bambino di eccezionale bellezza. Preoccupata per il futuro del bimbo, Liriope consultò il profeta Tiresia il quale predisse che Narciso avrebbe raggiunto la vecchiaia, “se non avesse mai conosciuto se stesso.”
Quando Narciso raggiunse il sedicesimo anno di età, era un giovane di tale bellezza che ogni abitante della città, uomo o donna, giovane o vecchio, si innamorava di lui, ma Narciso, orgogliosamente, li respingeva tutti. Un giorno, mentre era a caccia di cervi, la ninfa Eco furtivamente seguì il bel giovane tra i boschi desiderosa di rivolgergli la parola, ma incapace di parlare per prima perché costretta, da una punizione inflittale da Giunone, a ripetere sempre le ultime parole di ciò che le veniva detto usò l’astuzia per avvicinarsi a Narciso. Quest’ultimo, quando sentì dei passi e gridò: “Chi è là?”, Eco rispose: “Chi è là?” e così continuò, finché Eco non si mostrò e corse ad abbracciare il bel giovane. Narciso, però, allontanò immediatamente in malo modo la ninfa dicendole di lasciarlo solo. Eco, con il cuore infranto, trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo per il suo amore non corrisposto, finché di lei rimase solo la voce. Nemesi, ascoltando questi lamenti, decise di punire il crudele Narciso. Il ragazzo, mentre era nel bosco, si imbatté in una pozza profonda e si accucciò su di essa per bere. Non appena vide per la prima volta nella sua vita la sua immagine riflessa, si innamorò perdutamente del bel ragazzo che stava fissando, senza rendersi conto che era lui stesso. Solo dopo un po’ si accorse che l’immagine riflessa apparteneva a lui e, comprendendo che non avrebbe mai potuto ottenere quell’amore, si lasciò morire struggendosi inutilmente; si compiva così la profezia di Tiresia.
Analizzando la figura di Narciso da un punto di vista psicologico, possiamo notare come egli non riesca a separarsi dalla propria immagine. Non riesce ad aprirsi all’altro. Secondo il poeta simbolista Rimbaud la soggettività si struttura nel momento in cui si entra in relazione profonda con l’altro: l’altro con la sua diversità apre squarci sul nostro mondo interno, sulla nostra ricchezza interiore e sulla nostra vulnerabilità. L’altro ci aiuta a capire realmente chi siamo. Narciso non riesce a far ciò perché, come ci insegna il mito, rifiuta l’altro con qualsiasi volto egli si presenti e rimane psicologicamente attaccato alla sua immagine di superficie.
Quindi, il narcisismo patologico in un individuo lo possiamo cogliere dalla qualità delle sue relazioni interpersonali e dal rapporto superficiale con il proprio mondo interno. Il narcisista patologico non riesce ad amare, ne è letteralmente incapace. L’individuo con disturbo narcisistico di personalità, a differenza del Narciso di Ovidio, non rifiuta gli altri, ma per dirla con Gabbard tende a trattarli come “oggetti da usare e abbandonare secondo i propri bisogni narcisistici, incurante dei loro sentimenti.” (Gabbard, 1995, pag. 469). Una persona con narcisismo sano ha una forma di amore positivo per se stessa, nel senso che è in grado di prestare la giusta attenzione alle sue esigenze psichiche, ma nutre la stessa forma di amore per l’altro. In una relazione sana è presente empatia, la preoccupazione per i sentimenti dell’altro, un genuino interesse per le sue idee, una certa capacità di tollerare l’ambivalenza dei propri sentimenti, un saper essere compagno dell’altro. In una relazione narcisisticamente sana talvolta ci si serve dell’altro per la gratificazione dei propri bisogni, ma tendenzialmente ciò accade all’interno di una relazione connotata da sensibilità e profondo rispetto per l’altro e per la sua individualità. In sostanza una persona con narcisismo patologico si caratterizza per il non riuscire a vedere l’altro come separato da sé, e allo stesso tempo per il non riuscire a vedere che l’apparenza di se stesso.