Il titolo di quest’articolo, Natura e Psiche, potrebbe indurre a pensare che ci si stia occupando di un ambito, la Natura, lontano e che nulla ha a che vedere con la psicologia. In realtà ad essere limitante è il ritenere che i fenomeni psichici siano osservabili solo all’interno degli studi clinici e nei laboratori di psicologia sperimentale. Con Carl Gustav Jung possiamo ricordare che “proprio in quanto psicologi abbiamo anzitutto il compito e il dovere di comprendere la situazione psichica del nostro tempo e di scorgere chiaramente quali problemi e sfide ci sottoponga il presente.” (Carl Gustav Jung, Opere Vol. 16°, “Che Cos’è La Psicoterapia?”)
Rimanendo proprio sul pensiero junghiano possiamo notare come l’uomo contemporaneo abbia la tendenza a cogliere principalmente i lati luminosi delle sue capacità coscienti. In altre parole, è come se fosse presente un’eccessiva fiducia nella razionalità. Talvolta osservava lo stesso Jung con un filo di amarezza come la fede nella sola razionalità avesse prodotto la bomba atomica e due mondiali nell’arco di soli trent’anni. Sia ben chiaro che Jung non critica assolutamente la coscienza in generale, anzi la considera il fattore che può conferire, tramite il riflettere, senso e significato all’esistenza. Critica l’eccessiva elevazione che l’uomo rischia di fare della coscienza e non la coscienza in sé. Tale distinzione è fondamentale, perché una coscienza non elevata non è sinonimo di una coscienza debole, bensì di una coscienza che può essere forte e capace di essere aperta in maniera diversa da una coscienza eccessivamente innalzata che tende invece a chiudersi, ad irrigidirsi, ad essere esclusivamente ego-centrata. Tale riflessione sulla coscienza ci riguarda da vicino, se consideriamo il periodo storico che stiamo attraversando.
Naturalmente noi viviamo nell’epoca della tecnica. Ciò ci ha permesso quasi di azzerare le distanze spaziali e temporali, possiamo essere in contatto, comunicare, con tutti in tempo reale, mentre anche solo per consegnare una lettera impiegavamo settimane decenni orsono. Disponiamo di una quantità di informazioni estremamente più ampia rispetto alle generazioni precedenti. Aggiungiamo o cancelliamo persone con un click, senza nemmeno doverci scomodare dalla poltrona di casa. In breve sintesi, siamo iper-stimolati e ciò solletica la nostra onnipotenza e gli impulsi “predatori” della coscienza. Non è affatto detto che tale condizione sia necessariamente positiva. Con ciò non si vuole né demonizzare la tecnica, perché l’uomo da sempre si è ingegnato nel trovare soluzioni che migliorassero la sua vita, basti pensare alla scoperta del fuoco, all’invenzione della ruota, alla diffusione della stampante, fino ad arrivare ai moderni mezzi di trasporto e comunicazione, e proprio ciò, come diceva Anassagora, l’ha reso intelligente; né si vuole lasciar intendere che l’etica dell’uomo contemporaneo sia peggiore o minore rispetto a quello dei suoi predecessori. Tuttavia non possiamo esimerci dal riflettere sulle caratteristiche del nostro presente e sul fatto che esso possa porre le nostre capacità coscienti in una posizione decisamente scomoda. Una posizione che può facilmente farci cadere nella ragnatela della nostra hybris, renderci vittime della presunzione e della tracotanza potenzialmente insita in ognuno di noi. Questo contesto psichico, che può vederci potenzialmente vittime del nostro stesso senso di onnipotenza, ha portato Jung a parlare della nevrosi come “di un sistema di relazioni sociali ammalato.” (Carl Gustav Jung, Opere Vol. 16°, “Che Cos’ è La Psicoterapia?”).
Questo sistema di relazioni ammalato coincide con il disorientamento dell’uomo moderno, via via più evidente rispetto al periodo in cui Jung scriveva determinate cose, raccontato da sociologi attualissimi. Per esempio da Cristofer Lasch con il suo “La Cultura Del Narcisismo”, oppure dal più conosciuto Zygmunt Bauman che definisce la società contemporanea liquida. Il sociologo polacco ha focalizzato la sua attenzione sul passaggio dalla modernità alla postmodernità. Ha paragonato i concetti di modernità e postmodernità rispettivamente allo stato solido e liquido della materia. Mentre nell’età moderna tutto era dato come una solida costruzione, basti per esempio pensare al ruolo dei partiti politici di massa giocato nell’Italia post-bellica, dove ognuno godeva di solidi punti di riferimento, ai giorni nostri, invece, ogni aspetto della vita può venir rimodellato. Dunque nulla ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte. Questa evoluzione ci ha trasformato, almeno in parte, da cittadini in consumatori. In alcuni luoghi, emblematici del nostro tempo, tale evoluzione è particolarmente evidente. Per esempio, nei centri commerciali. Luoghi da un punto di vista fisico e spaziale, ma contemporaneamente, per usare una felice espressione dell’antropologo Marc Augé, dei non-luoghi, perché non possiamo riconoscervi una storia collettiva, coltivare dei legami, delle relazioni. Sono luoghi di transito, dove solo si consuma. E se ci pensiamo bene, tanti luoghi della nostra post-modernità sono solo dei transiti che non favoriscono il rapporto tra individui. Gli aereoporti sono ovviamente dei luoghi di transito, come lo sono gli autogrill, o come può esserlo un villaggio vacanze. Perché sono luoghi anonimi, senza nulla di specifico, identici a se stessi in ogni parte del globo. Purtroppo però, e ciò è decisamente più grave, anche tante periferie di alcune nostre città sono solo dei dormitori di transito. Con luoghi del genere, che così poco favoriscono un incontro con se stessi e con l’altro, non possiamo sorprenderci di ritrovarci decisamente schiacciati sul presente e in preda ai nostri impulsi. Una sorta di “Io, Io, Io…” che conduce alla perdita degli altri. Per esempio nel 2015 una ricerca Eurostat ha certificato che il 13 % degli italiani non ha nessuno a cui rivolgersi in momenti di difficoltà. Ma questa perdita degli altri, che possiamo scorgere anche nella solitudine dell’anziano o nella paura eccessiva che si ha verso il diverso, verso il migrante, comporta anche la perdita di un proprio sentito progetto esistenziale. Anche per questo, come vedremo meglio a breve, avere un rapporto con luoghi naturali è importante, perché possono aiutare l’Io ad uscire dalla sua vertiginosa solitudine.
La Natura può fare molto per aiutarci nel non cadere dentro questa unidirezionale inflazione dell’Io. Certo, attualmente, il rapporto predatorio che la coscienza ha con ciò che la circonda lo riscontriamo anche nel rapporto con la Natura. Per esempio é stato calcolato che nel 2017 almeno 11000 decessi sono stati dovuti al global warming e alle sue devastanti conseguenze climatiche. Oppure possiamo pensare ai tanti studi longitudinali che ormai certificano chiaramente la relazione tra polveri sottili presenti nell’aria e tumori; o alla relazione che intercorre tra amianto e patologie tumorali. Questi dati sono solo una goccia in un oceano, nel senso che potremmo trovarne e citarne molti altri, ma forse, senza andare troppo lontano, basta semplicemente ricordare i 5213 ettari, equivalenti a 7500 campi da calcio, bruciati nei primi 8 mesi del nella nostra regione per capire come fatichiamo ad avere un’attenzione proficua verso la natura. Eppure la natura potrebbe fare molto rispetto all’ampliare il nostro sguardo e la nostra consapevolezza sul chi veramente siamo e cosa vogliamo. James Hillman ha cercato di approfondire nel suo lavoro il rapporto tra natura e psiche e non hai mai smesso di sottolineare come i luoghi abbiano un’anima che non sappiamo più ascoltare. Ciò implica, secondo Hillman, che i nostri luoghi dovrebbero essere in un certo modo: con spazi di profondità, con spazi verdi, con spazi per l’intimità, con aree per il rilassamento, ed infine pensati anche per il silenzio.
Con queste parole Hillman descrive la sua esperienza in un giardino giapponese: “In quel giardino io ero nella Psiche, mi accorgevo che tutto era psicologia intorno a me, tutto parlava psicologicamente. Il mondo è come un giardino in quanto si manifesta; è un mondo di cose come alberi, sentieri, ponti; è anche un mondo di intuizioni, di metafore, di insegnamenti – a disposizione di ogni anima che passa – dati con la facilità dei riflessi sul lago: il giardino rende più intellegibile e più bella l’interiorità dell’anima. Le stagioni parlano anche, e contemporaneamente, della psiche» nel mentre segnalano «la caduta delle foglie, la paralisi della vita durante l’ inverno, lo schiudersi dei germogli, il movimento dell’ acqua tra le rocce… Tutte esperienze che anche l’individuo umano fa, solo che le esprime con i concetti complessi della psicologia, mentre il giardino le esprime con il linguaggio della natura, o in ciò che Jung chiamava la psiche oggettiva.” (James Hillman, “Politica della Bellezza”).
“Natura” in giapponese si dice “shizen”, che tradotto letteralmente significa “essere così come si è da se stessi”. Si può notare come questo modo di intendere la Natura implichi che essa sia un fenomeno autonomo esistente di per sé e non un qualcosa creato da qualcuno. Nello Schintoismo, e ciò è confluito anche nel Buddismo, non c’è un Dio che ha creato la Natura, ma nella Natura incontriamo i kami, degli spiriti e presenze naturali che solo una traduzione un pochino forzata può tradurre come dei. Nella cultura schintoista può esserci un kami, uno spirito, in un albero, in un fiume, in una roccia, in una montagna, in alcuni animali e via dicendo. Per tale ragione i giardini giapponesi sono pensati come un’imitazione in miniatura della natura, proprio per favorire un salutare incontro con i kami. In questo contesto ovviamente non siamo interessati a stabilire se i kami esistano o meno, ci interessa però capire l’esperienza psichica che può scaturire dall’incontro con un albero, un fiume, una roccia, un animale, o altro ancora.
In termini maggiormente psicologici potremmo dire che la Natura, in genere, ha la capacità di evocare, di “attivare” parti di noi diverse, se ci poniamo con un certo atteggiamento verso di essa. Se ci “spogliamo” un pochino. Un esempio vivo di rapporto psicologico con la Natura, lo troviamo nelle splendide pagine dell’autobiografia, Ricordi –Sogni – Riflessioni, di Jung in cui egli racconta il rapporto con la sua casa in pietra di Bollingen, meglio conosciuta come torre, costruita principalmente con le proprie mani. Jung era solito passare vari mesi dell’anno a Bollingen, senza elettricità, cucinando solo con la legna, pompando l’acqua da un pozzo, immerso nel silenzio. Lì, in quel luogo, dove egli percepiva se stesso come “l’antichissimo figlio della madre”, Jung riusciva a coltivare un’intima relazione psichica con le sue immagini interne e con elementi naturali, quali l’acqua, il fuoco, la terra, le pietre, il silenzio, che gli ha permesso di dare solidità e forma ad alcune delle sue intuizioni psichiche più feconde. I saggi di cui era più soddisfatto, quali “Risposta a Giobbe” o i lavori sull’alchimia, sono stati per così dire “partoriti” a Bollingen. Senza il rapporto con quel luogo immerso nella Natura, Jung non sarebbe stato del tutto se stesso.
Forse non dovremmo cadere nell’errore di pensare che solo grandi menti possono accedere a tali esperienze. Con ogni probabilità un genio umile come Jung, capace di estrarre tantissimo dalle esperienze avute, nasce ben di rado, ma la natura è potenzialmente capace di evocare in tutti se ci concediamo uno spazio in cui possiamo porci in atteggiamento di cosciente ascolto e rispetto verso di essa. E, ovviamente, se si ha del tempo verso di essa. Ne “Il Mondo Dei Sogni” Marie-Louise Von Franz osserva che in vari miti e religioni la divinità si manifesta in montagna, per esempio Mosè ricevette le Tavole della Legge sul Sinai o gli Dei dell’Antica Grecia risiedevano sul Monte Olimpo, ed in effetti ognuno di noi che va a fare una passeggiata in montagna, con uno spirito di rispettoso silenzio, ha l’impressione che accada qualcosa, che sia presente un’atmosfera, misteriosa, spirituale, che non si riesce del tutto ad afferrare. E’ come se la montagna, proprie per le sue caratteristiche intrinseche, avesse una capacità di “attivare”: talvolta accende un bisogno di giocare, altre volte la necessità del silenzio, altre ci induce a riflettere sulla nostra vita con i suoi cicli di morte e rinascita, altre volte favorisce un bisogno di intimità, altre volte ancora ci aiuta a cogliere la nostra fame d’aria, o il nostro bisogno di spiritualità. Perché, probabilmente, la psiche non è dentro di noi, o solo dentro di noi, ma siamo noi dentro la psiche. E nel momento in cui siamo a contatto con la Natura siamo completamenti immersi nella psiche.
In questo breve articolo, che mi avvio a concludere, non si vuol tessere l’elogio della Natura tout-court, perché essa può anche mostrare il suo aspetto pericoloso e scivoloso, ma trovo opportuno rimarcare come un rapporto psichico con luoghi naturali possa costituire una tutela per un salutare equilibrio psicologico del singolo individuo. La Natura può infatti fungere da elemento che offre all’Io l’opportunità di decentrarsi per comprendere meglio la complessità della totalità psichica presente in ognuno di noi. Un decentramento che passa attraverso il capire che può esserci un qualcosa di più grande e di Altro fuori di noi, che non ci appartiene, ma di cui sentiamo di poterne far parte e che, soprattutto, costituisce un ponte verso quella dimensione di Alterità presente anche dentro di noi.